LEGENDA

Una precisa visione della Commedia dantesca ha ispirato questa mappa dell’Inferno. Riportiamo due citazioni esemplificative di questa visione. Italo Calvino ha affermato: «A proposito, su Dante non vorrei dire sciocchezze, ma mi sa che non sia per nulla “infernale” e per nulla “paradisiaco”, con quella sua fedeltà agli uomini come sono, alla “terra”». Il commediografo tedesco Peter Weiss, a suo modo, rincara e precisa: «L’Inferno ospita tutti quelli che secondo il Dante di una volta erano condannati a una pena infinita, e oggi, però, dimorano qui tra noi, i vivi, portando avanti impuniti i loro misfatti, incensurati, ammirati da molti. Qui tutto è saldo, oliato, garantito, non si dubita di niente, e ogni sofferenza viene scrollata via. Soltanto a noi che presumiamo di non farne parte, e siamo invece legati a loro con il nostro sconforto, con la mancanza di vigore per poterli spodestare, essi fanno paura. Vediamo i loro intenti, vediamo da dove vengono e vediamo la meta che si sono prefissati, e dobbiamo restare qui, loro alleati, finché li lasciamo fare.» Questa mappa, questo Inferno, è un viaggio nell’oscuro mondo dei vivi.


Struttura del lavoro

Una tripartizione dello spazio a disposizione in sezioni verticali che offre una duplice possibilità di lettura: per bande verticali e scorrendo orizzontalmente da una banda all’altra.

 

COLONNA CENTRALE

La forma è volutamente conica, nel rispetto della raffigurazione tradizionale dell’Inferno dantesco. Questa immagine non appartiene solo al mondo letterario e cristiano–medievale di Dante e dei lettori occidentali. Miguel Asìn De Palacios mostra una sezione longitudinale dell’inferno islamico e poco importa che Dante fosse più o meno a digiuno di tradizione religiosa islamica. Le somiglianze sono un fatto.

Lo schema conico rappresenta la divisione per canti, indicati con i numeri romani a sinistra. Pochi richiami paesaggistici di riferimento: due fiumi, l’Acheronte e il Flegetonte; il Cocito; le mura della città di Dite e soprattutto due porte: la porta dell’Inferno e quella della Città di Dite. La prima aperta, la seconda chiusa. La prima è aperta, larga, “lasciata spalancata da Cristo quando è disceso all’Inferno, la seconda è aperta per i dannati che precipitano in basso verso il loro limite, ma si chiude rabbiosamente di fronte al ricercatore”. Alle estremità di destra o di sinistra dell’imbuto sono visibili delle frecce. Indicano il verso del cammino di Dante e della sua guida. La destra indica la coscienza, la contemplazione e la ricerca spirituale. “I due poeti vanno verso sinistra, verso l’inconscio, cioè verso l’azione inconsapevole … Solo in due episodi i due poeti si volgono a destra: per recarsi da Farinata (Canti IX e X) e nell’episodio di Gerione (Canto XVII). Nel primo caso siamo nel cerchio degli eretici, i quali sono rivolti a una ricerca spirituale. […] Gerione rappresenta la frode che fa capo a Lucifero: quindi abbiamo a che fare con qualcosa che riguarda ancora l’aspetto spirituale, sia pure negativo.”

La scelta dei versi. La cantica infernale viene privata di tutti i riferimenti cosmologici, astronomici, teologici. Solo all’inizio e alla fine due indicazioni temporali: 25 marzo 1300 (alba), 26 marzo 1300 (sei del pomeriggio – ora di Gerusalemme). I versi scelti sono un ininterrotto racconto di incontri in cui Dante chiama “spesso in causa sulla scena … coloro che conobbe già sulla terra”  e si può procedere nella lettura da un canto all’altro. Sono state sistematicamente evitate tutte le similitudini; sono state volutamente ripristinate tutte quelle parti scritte con uno stile comico e basso, trascurate dalle antologie scolastiche.

 

COLONNA DI SINISTRA

L’idea è quella di mantenere l’impianto medievale cristiano. La colonna sinistra è organizzata in bande orizzontali di due colori che si alternano a indicare cerchi, gironi e bolge. Le fasce terminano lungo l’asse orizzontale, esattamente all’altezza del canto, della colonna centrale, in cui si parla di quei “luoghi”.

Le bande verticali poste all’estrema sinistra indicano i tre peccati puniti all’inferno: Incontinenza, Violenza e Frode. Una banda verticale più interna in corrispondenza della Frode distingue le Malebolge e i Traditori. Ogni canto è indicato con un numero romano in giallo. Per ogni canto è indicato (fondo rosso – scrittura bianca) il peccato punito e la legge del contrappasso che agisce sui peccatori; i personaggi (fondo bianco – scrittura in rosso) citati da Dante, nel canto corrispondente. Essi sono storici o mitologici. Le informazioni di quelli storici sono affidate, per lo più, alla penna di Marco Santagata o di Anna Maria Chiavacci Leonardi; quelli mitologici alla fonte classica, per lo più romana, citata in traduzione, degli autori della bella scola tanto amati dal Sommo Poeta. Lucano, Stazio, Ovidio e il greco Omero. Virgilio naturalmente. Volutamente pochi riferimenti a testi religiosi: quattro volte è citato un testo biblico; quattro volte un testo di cultura musulmana. Qualche rimando filosofico, all’Etica di Aristotele in particolare.

Ma l’idea è quella di nobilitare il mito classico: la lettura in orizzontale consente di capire la profonda novità che il personaggio classico subisce con la scrittura dantesca: i personaggi del mondo classico sono “senza Storia”; in Dante nessuna leggendaria epicità li connota ma essi diventano espressione di elementi impensabili nel mondo antico: valore dell’individuo, storicità e libertà.

 

COLONNA DI DESTRA

Un’astrazione. Una catena ininterrotta di testi del Novecento. Nessuna distinzione cristiana e medievale perché gli schemi sono saltati. Un’idea di fondo: “l’uomo moderno non può semplicemente credere, ma ha bisogno di capire”. Le citazioni sono quelle di chi ha cercato di “capire” il testo dantesco. Ciascuno a suo modo. Come critico letterario (scrittura in nero); come artista a quale il testo dantesco è servito da fonte di ispirazione (scrittura in rosso); come interprete alla luce delle teorie contemporanee (scrittura in nero su fondo chiaro). Tra gli artisti le voci appartengono al mondo della Narrativa (Pier Paolo Pasolini), della Poesia (Edgar Lee Master), della musica (Bob Dylan), del teatro (Peter Weiss). Adriana Mazzarella, Giorgia Sitta e Mario Pigazzini tra i maggiori interpreti in chiave psicanalitica e alchemica. Le voci dei critici sono innumerevoli e includono anche alcune tra le maggiori voci straniere: Auerbach, Pound, Borges. Ma sempre e solo Novecento. Una sola eccezione: una citazione tratta da Francesco De Sanctis. Un tributo dovuto. Una sola voce a metà fra il critico e l’artista: un traduttore. Il poema dantesco è stato tradotto in arabo solo nel Novecento. Qui viene riportata la terzina 58 – 60 del terzo canto. Quando gli autori sono citati per la prima volta, il loro nome è stato scritto per esteso; quando ricorrono altre volte, il nome compare solo con l’iniziale puntata.

Unico accenno di schema suggerito dal testo di Adriana Mazzarella “Alla ricerca di Beatrice”. Una rilettura di Dante alla luce delle teorie di Carl Gustav Jung. Le bande verticali a sinistra della colonna, in perfetta corrispondenza con quelle della colonna di sinistra, individuano il Regno della Lonza, del Leone e della Lupa. Nella prospettiva junghiana essi corrispondono a tre stadi del percorso umano: distacco dalla corporeità, distacco dall’emotività e distacco dalla mente egoista, indicati nella banda verticale a destra della colonna. In quest’ultima colonna in basso: la Metanoia. Attraversare Lucifero vuol dire attraversare quella fase che nelle religioni orientali prende il nome di metanoia, cambiamento d’intelletto. Una conversione. Da cosa verso cosa? Dall’ombra di sè stessi al chiaro mondo dei vivi

Personaggi sullo sfondo: in arancione quelli storici, in verde quelli del mito. Canti distinti con lo stesso criterio della colonna di sinistra (numero romano, colore giallo).

Buona consultazione e buona lettura. 
Sara Carbone
Autrice e curatrice dell’opera

Citazioni colonna di sinistra

LA SELVA

«La selva è un simbolo trasparente del male e del peccato, nel cui intrico si sono smarriti sia il personaggio Dante sia l’intera cristianità.» (Marco Santagata)

 

LE TRE FIERE

«La lince incarna la lussuria; il leone, la superbia; la lupa, l’avidità. È quest’ultima la causa principale che impedisce agli uomini di essere felici. Dante ha di mira la moderna società mercantile, basata sullo scambio di beni e sulle transazioni finanziarie, di cui la sua Firenze fornisce l’esempio più completo.» (Marco Santagata)

 

VIRGILIO

«È Virgilio, l’autore dell’Eneide, vissuto tra il 70 e il 19 a. C. Sarà lui a fare da guida a dante sia nella discesa dell’Inferno sia nella salita al Purgatorio.» (Marco Santagata)

 

IL VELTRO

«Molto probabilmente [dietro l’immagine del veltro non si nasconde] nessuno. Questa sembra una profezia generica, priva di un referente concreto. Può darsi che Dante pensi a un imperatore futuro oppure […] a un papa che riconduca la Chiesa alla povertà evangelica e che […]  trasformi l’intera società cristiana.»   (Marco Santagata)

 

Citazioni colonna di destra

LA SELVA

«Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella «Selva» della realtà del 1963, anno in cui ero giunto, assurdamente impreparato a quell’esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della propria, c’era un senso di oscurità. Non direi di nausea, o di angoscia: anzi, in quell’oscurità, per dire il vero, c’era qualcosa di terribilmente luminoso: la luce della vecchia verità, se vogliamo, quella davanti a cui non c’è più niente da dire». (Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis

 

«Questa selva potrebbe rappresentare un momento di crisi nella nostra vita. […] È l’inizio di una vera e propria irruzione dell’inconscio nella coscienza. […] Questa selva impenetrabile può essere considerata anche il ricettacolo dell’inconscio misterioso. In essa pulsa un’intensa vita vegetale e animale. […]  La selva non è in realtà un luogo, ma uno stato di sonno, uno stato di non consapevolezza del proprio essere che porta alla morte dello spirito, la seconda morte: lo spirito si perde nella materia, oppure la materia sommerge lo spirito». (Adriana Mazzarella)

 

IL COLLE

«[Il colle] tiene ancorato dante ai valori della coscienza e gli impedisce di essere inghiottito dall’inconscio: è il mondo maschile dei valori che si fa avanti come meta da ascendere (verticale) in contrapposizione alla selva, immagine femminile (orizzontale) e oscura dell’inconscio. […] Il colle corrisponde all’asse spirituale del mondo, lungo il quale avviene la discesa dello spirito e lungo il quale si ascende allo spirito stesso». (Adriana Mazzarella)

 

LA LONZA

«[…] Eccola là, la bestia agile e senza scrupoli, cangiante come un camaleonte, così che i suoi colori che cambiano sono sempre quelli di prima. […] la lonza, con tutti quei colori che le maculavano la pelle, non si muoveva davanti ai miei occhi, come una madre-ragazzo, come una chiesa-ragazzo» (Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis)

 

«La belva dimostra una totale, subdola autonomia: non aggredisce ma impedisce il cammino; è leggera, bella, veloce, sinuosa, prestante e anche attraente nei suoi colori. [Rappresenta] l’attrazione verso le cose che piacciono; è anche la prima tensione verso la conoscenza ed è indispensabile nel bambino […] Ma pure nell’uomo adulto e civilizzato è sempre all’opera e diventa pericolosa quando non si usa il ben dell’intelletto cioè la riflessione» (Adriana Mazzarella)

 

IL LEONE

«[…] il sonno e la ferocia riuniti assieme in una sola forma di “Leone”; che, benchè spelacchiato, fetido di stallatico bestiale, pigro, vile, prepotente, stupido, privo di ogni altro interesse che fosse il poltrire solo, e il divorare solo – aveva tuttavia la potenza di chi non sa il male, essendo per sua natura soltanto bene ciò in cui tutto lui stesso consiste.» (Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis)

 

«Il leone rappresenta la violenza, l’emotività incontrollata, la forza cieca che opprime il diritto. Sotto l’influsso del leone pretendiamo violentemente l’oggetto del nostro desiderio; la paura di perdere le cose che ci hanno sedotti mette in vibrazione tutta la nostra parte emotiva istintuale, che ci prende la mano.» (Adriana Mazzarella)

 

LA LUPA

«Quella “Lupa” mi faceva paura: non per ciò che di degradante rappresentava, ma per il solo fatto di essere un’apparizione, quasi oggettiva: la definizione di sé, un “ecce homo”, per così dire, dalla cui realtà la conoscenza non può in alcun modo evadere.» (Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis)

 

«La lupa famelica sembra rappresentare qui la brama egoistica dell’io, e con essa la furbizia, l’inganno, la frode. Sedotti e trascinati dalle passioni, usiamo l’intelligenza a fini egoistici, diventiamo violenti e usiamo l’intelligenza per procurarci sempre maggiori soddisfazioni e piaceri, ingannando e defraudando il prossimo.» (Adriana Mazzarella)

 

VIRGILIO

«Fui poeta […] cantai la divisione nella coscienza di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita. E, nel dolore della distruzione misto alla speranza della fondazione, esaurisce oscuramente il suo mandato.» (Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis)

 

«[Dante] trasformava Virgilio come se la Roma di augusto fosse separata dalla sua soltanto dal passare del tempo, e come se quanto era accaduto nel frattempo avesse portato soltanto un aumento di esperienze e di eventi, ma non un mutamento di tutta la forma di vita e di pensiero, onde Virgilio diventa un antenato che parla la lingua del nipote e lo capiece fino in fondo, mentre a noi sembra […] che Virgilio, se avesse conoscenza di Dante, non potrebbe né apprezzarlo, né comunque capirlo.» (Erich Auerbach)

 

«Virgilio è il simbolo dell’amore per la ricerca che illumina la mente umana. […] è il portatore dei valori del passato, è l’antico vate ma anche la riflessione umana capace di discernere e di dare il giusto consiglio. […] Riconosciamo in lui la nostra tensione a voler uscire dai limiti delle incomprensioni e il dolore per questi nostri limiti che ci impediscono di comprendere l’essenza, il senso della vita.» (Adriana Mazzarella)

 

«[…] se Dante sceglie Virgilio come guida delle prime due parti del suo viaggio, […] ciò è dovuto alla presenza, in Virgilio, non di una semplice funzione poetica, ma della prova di un sapere iniziatico incontestabile. Non è senza ragione se la pratica delle sortes virgilianae […]» (Renè Guinon, L’esoterismo di Dante)

 

INFERNO, canto I

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita. 3

 

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura! 6

 

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte. 9

 

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai. 12

 

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto, 15

 

guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle. 18

 

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta. 21

 

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata, 24

 

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva. 27

 

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso. 30

 

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta; 33

 

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. 36

 

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino 39

 

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle 42

 

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone. 45

 

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse. 48

 

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame, 51

 

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. 54

 

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista; 57

 

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace. 60

 

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco. 63

 

Quando vidi costui nel gran diserto,
“Miserere di me”, gridai a lui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”. 66

 

Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui. 69

 

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. 72

 

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto. 75

 

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?”. 78

 

“Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?”,
rispuos’io lui con vergognosa fronte. 81

 

“O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume. 84

 

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore. 87

 

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi”. 90

 

“A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio; 93

 

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide; 96

 

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria. 99

 

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia. 102

 

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro. 105

 

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute. 108

 

Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla. 111

 

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno; 114

 

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida; 117

 

e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti. 120

 

A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire; 123

 

ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna. 126

 

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!”. 129

 

E io a lui: “Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio, 132

 

che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti”. 135

 

Allor si mosse, e io li tenni dietro.

Citazioni colonna di sinistra

IO SOL UNO (DANTE STESSO)

«[…] illuminato dalla grazia divina, mi trovavo in casa mia e giacevo nel mio letto, accanto a mia moglie Omheni, e vegliavo meditando con attenzione la legge di Dio, e dopo aver meditato a lungo stavo per addormentarmi, quand’ecco improvvisamente venne a me l’angelo Gabriele. Egli mi si rivelò […] venne a me in questo modo dicendomi: “Maometto, tu che sei il messaggero di Dio, Alzati, preparati e stringi la fascia, copri il capo e il corpo con il tuo bianco mantello e seguimi, poiché Dio questa notte vuole mostrarti le molte meraviglie della sua potenza e dei suoi segreti”.» (Maometto, Il Libro della Scala)

 

Citazioni colonna di destra

IO SOL UNO (DANTE STESSO)

“Dante è come se avesse improvvisamente la percezione che quello che è chiamato a vivere è veramente una responsabilità enorme […] io sol uno: tre termini fulminanti, a dire un sentimento di solitudine. Ma non solitudine perché sono da solo; solitudine nel senso che tocca proprio a me: devo rispondere veramente io! Devo rispondere alla chiamata della vita, alla vocazione della vita: perché tutta la realtà chiama a rispondere, tutta la realtà è come se chiamasse, attraesse attorno a sé e gli chiedesse di prendere posizione. Vocazione, cioè chiamare, e responsabilità, cioè rispondere: questa è la dinamica con cui l’uomo entra nel reale, entra nella vita. Dante si spaventa di questo, della vita come vocazione, come responsabilità” (Franco Nembrini)

 

“È la guerra contro la bestia minacciosa, la parte oscura, automatica dell’istinto naturale che ha con lui un misterioso legame. Per domarla e tramutarla, egli dovrà con dolore sacrificare una parte di sé, e la lotta sarà faticosa su tutti i piani: fisico, emotivo e mentale” (Adriana Mazzarella)

 

Io non Enea, io non Paulo sono: grandissimo verso … I due nomi propri …prendono un potente rilievo, carichi di tutta la loro storia provvidenziale, per cui ognuno dei due è segno di tutto un mondo (il mondo pagano culminante nell’impero, e quello cristiano espresso nella Chiesa). Di fronte a loro appare l’umile cristiano qualunque, peccatore che Dante rappresenta […]” (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

BEATRICE

“È una voce senza suono per Dante: questa donna che incarna un ideale tanto alto può essere sentita soltanto dal Maestro o intuita dalla mente. Solo attraverso questa donna l’uomo può trascendere il cielo della Luna; sembra proprio che Dante senta Beatrice come quella immagine interiore che Jung ha chiamato Anima e che collega l’Io all’inconscio, a ciò che trascende l’Io individuale.” (Adriana Mazzarella)

 

INFERNO, Canto II

 

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno    3

 

m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.    6

 

O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.    9

 

Io cominciai: “Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.    12

 

Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.    15

 

Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale    18

 

non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:    21

 

la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.    24

 

Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.    27

 

Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.    30

 

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.    33

 

Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono”.    36

 

E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,    39

 

tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.    42

 

“S’i’ ho ben la parola tua intesa”,
rispuose del magnanimo quell’ombra,
l’anima tua è da viltade offesa;    45

 

la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.    48

 

Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.    51

 

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.    54

 

Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:    57

 

“O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,    60

 

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;    63

 

e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.    66

 

Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.    69

 

I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.    72

 

Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.
Tacette allora, e poi comincia’ io:    75

 

“O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ ha minor li cerchi sui,    78

 

tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.    81

 

Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.    84

 

“Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente”, mi rispuose,
“perch’i’ non temo di venir qua entro.    87

 

Temer si dee di sole quelle cose
c’ hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.    
90

 

I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.    93

 

Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ‘mpedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.    
96

 

Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.    99

 

Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.    102

 

Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?    105

 

Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -.    108

 

Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,    111

 

venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’ hanno”.    114

 

Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.    117

 

E venni a te così com’ella volse:
d’inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.    120

 

Dunque: che è perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,    123

 

poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?”.    126

 

Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,    129

 

tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca:    132

 

“Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!    135

 

Tu m’ hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto.    138

 

Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro”.
Così li dissi; e poi che mosso fue,    141

 

intrai per lo cammino alto e silvestro.

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I PUSILLANIMI

“È una ripresa durissima, del tema della viltà. Il terzo è il grande canto degli ignavi: la condanna feroce, spietata, una delle pagine più violente della Divina Commedia, di chi non prende posizione, di chi non decide, non sceglie, non prende partito […] Insipidi che non sanno di niente.” (Franco Nembrini)

 

ANGELI NEUTRALI

“di questi angeli neutrali non parla la Scrittura, ma non si tratta tuttavia di una invenzione dantesca; si ritrova questa tradizione sia in testi popolari (come la Navigatio Sancti Brandani) sia in testi teologici o filosofici (come Clemente d’Alessandria o Pietro Olivi…).” (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

COLUI CHE FE’, PER VILTADE IL GRAN RIFIUTO

«I lettori del tempo di Dante non esitavano a riconoscere nel vile che fece il gran rifiuto papa Celestino V, l’eremita Pietro del Morrone […] che si era dimesso dopo pochi mesi di pontificato. […] Per l’intera durata del suo pontificato Bonifacio VIII fu perseguitato dall’accusa di essere stato lui a indurre Celestino alle dimissioni per potergli succedere, accusa a cui Dante mostra di dare credito.» (Marco Santagata)

 

“È più probabile invece che il prototipo di questo atteggiamento di viltà di fronte a una grave scelta sia Ponzio Pilato, che si rifiutò di scegliere il divino incarnato nell’uomo.” (Adriana Mazzarella)

 

CARONTE

«Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume / Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie / incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma, / sordido pende dagli omeri annodato il mantello. / Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele, / e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno, / vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza. / Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive, /donne e uomini, i corpi privati della vita / di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle, e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri: / […] Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli, / gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.» (Virgilio, Eneide)

 

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LA PORTA

«Per me si va in una città / che non è affatto dolente / Per me si va dove tutto si raggiunge / Per me si va tra la gente che sempre / è vincente / Lasciate ogni dubbio / voi ch’entrate.» (Peter Weiss, Inferno)

 

“L’immagine è potente e sinistra: la porta si presenta come una nera voragine aperta che, senza voce, parla per mezzo di una scritta posta in cima ad essa. [] La porta è aperta ma funge da guardiana di sé stessa: ferma colui che vuole entrare e lo mette in guardia affinché rifletta su ciò che lo aspetta. Il messaggio di Dante è chiaro: ogni passaggio nel mondo interiore richiede una scelta individuale. […] Il passaggio attraverso la porta può avvenire in due modi: o vi si passa perché trascinati da una volontà estranea e si cade quindi in una dannazione senza speranza […] o vi si passa coscientemente per conoscere i limiti umani: in quest’ultimo caso si esce da un’altra parte, come il ricercatore iniziato che, seguendo la via tracciata da Cristo, risorge a riveder le stelle sulla spiaggia del Purgatorio. […] Psicologicamente, il passaggio della porta e la paura che vi è connessa, sono anche l’espressione obiettiva di tutto ciò che minaccia la coscienza di chi osa lanciarsi verso l’ignoto, o qualcosa che all’inizio si presenta come un’ombra nera: è tutta la zona inesplorata dell’inconscio – qualcosa di eterno, di ignoto, di estraneo, che sta dietro quella porta.” (Adriana Mazzarella)

 

I PUSILLANIMI

«Viene rappresentato il primo peccato dell’uomo, il più antico, l’Ombra archetipa indistinta e anonima: l’inerzia, la non assunzione di responsabilità, non diversa dall’ignavia di coloro che furono incapaci di rispondere a qualsiasi stimolo di vita. Tra gli atteggiamenti dell’uomo il più ancestrale, il più nascosto dell’inconscio collettivo, il meno riconosciuto e quindi il più pericoloso, che riemerge e rivive nella maggior parte di noi, specialmente oggi.» (Adriana Mazzarella)

 

CARONTE

«Io son Caronte e quel che avete udito / era lo slogan della casa / […] Ora si comincia / Si dia inizio alla messinscena / Inferno è il nome del posto dove siamo / Io sono il portiere e in quanto tale conosco / l’edificio e il padrone che servo. / Chi ha accesso qui non ha più nulla da spartire / con quelli che non sono riusciti a tenere / il nostro passo / e che giacciono in preda allo scoramento. / L’ospite che abbiamo ora di fronte / e che era abituato a maneggiare classiche concezioni / deve ora farsi una nuova idea / Virgilio / spiegagli / che cosa può imparare dal motto sulla nostra porta» (Peter Weiss, Inferno)

 

“Il traghettatore che conduce all’altra riva sembra esprimere l’aspetto possente dell’energia vitale che investe l’uomo quando, sfuggito dall’ignavia, si abbandona al flusso della libido che lo dominerà secondo la forma dell’istinto. Caronte è un vecchio, antico come l’umanità quando emerse dall’incoscienza dell’eden. Appare urlante e minaccioso su una barca che galleggia sull’acqua, quasi a rappresentare l’umanità trascinata e sconvolta dal flusso impetuoso delle passioni.” (Adriana Mazzarella)

 

INFERNO, Canto III

 

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.    3


Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore.    6


Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterna duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate
’.    9

 

Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: “Maestro, il senso lor m’è duro”.    12

 

Ed elli a me, come persona accorta:
“Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.    15

 

Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’ hanno perduto il ben de l’intelletto”.    18

 

E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.    21

 

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.    24

 

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle    27

 

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.   30

 

E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: “Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?”.    33

 

Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.    36

 

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.    39

 

Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”.    42

 

E io: “Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?”.
Rispuose: “Dicerolti molto breve.    45

 

Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.    48

 

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa“.    51

 

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;    54

 

e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.    57

 

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.    60

 

Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.    63

 

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.    66

 

Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.    69

 

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi    72

 

ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’i’ discerno per lo fioco lume”.    75

 

Ed elli a me: “Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte”.    78

 

Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.    81

 

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!    84

 

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.    87

 

E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti”.
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,    90

 

disse: “Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti”.    93

 

E ’l duca lui: “Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare
“.
   96

 

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.    99

 

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.    102

 

Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.    105

 

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.    108

 

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.    
111

 

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,    114

 

similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.    117

 

Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.    120

 

“Figliuol mio”, disse ‘l maestro cortese,
“quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese;    123


e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,

sì che la tema si volve in disio.    126

 

Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona”.    129

 

Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.    132

 

La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;    135

 

e caddi come l’uom cui sonno piglia.

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IL LIMBO

«Dei due Limbi teologici, in particolare di San Tommaso, il Limbus Patrum (sede degli Ebrei credenti nel Cristo venturo, liberati poi da lui nella sua discesa dopo la morte) e il Limbus puerorum (sede degli infanti morti prima di ricevere il battesimo), Dante fa un solo luogo, nel quale stanno gli infanti non battezzati e i pagani virtuosi, cioè tutti coloro che, vissuti prima del Cristianesimo, pur onorando le virtù cardinali, non ebbero quelle teologali, cioè non credettero nella redenzione futura.» (Umberto Bosco – Giovanni Reggio)

 

LA BELLA SCOLA

«Di Omero, Dante, come tutti i suoi contemporanei, aveva solo una conoscenza vaga e di seconda mano, ma sapeva bene che una tradizione ininterrotta lo indicava come il principe dei poeti; Orazio, Ovidio, Lucano e, naturalmente, Virgilio costituivano nel Medioevo il canone dell’eccellenza poetica: erano i poeti per antonomasia.» (Marco Santagata)

 

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IL LIMBO

“Il Limbo è come una pausa, un intervallo dal tono mesto e severo come gli atti dei suoi più nobili abitanti. … in questo canto altissimo e triste passa di fatto il confine … tra le due grandi epoche storiche dell’uomo. In quei nobili spiriti ci fu il presagio di una realtà trascendente, intravista e pur irraggiungibile: è il sospiro che domina e caratterizza il canto.” (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

“Il fatto che questi saggi si trovino nel Limbo viene spiegato letteralmente con la mancanza del battesimo. In senso più profondo, il battesimo corrisponde alla morte dell’identificazione con l’Io e alla resurrezione intesa come apertura a una saggezza che trascende i limiti dell’Io. È questo battesimo che è mancato agli abitatori del Limbo; essi si sono basati solo sulle più alte qualità della coscienza.” (Adriana Mazzarella)

 

LA BELLA SCOLA

«grand’ombre: L’aggettivo sottolinea la maestosità dei quattro poeti che avanzano: una grandezza tutta morale e poetica che sembra riflettersi nello stesso aspetto esteriore dei personaggi. […] Dei quattro poeti, Omero è l’unico che ha una maggiore connotazione; gli altri non sono che nomi paradigmatici. […] Anche se Dante non poteva leggere Omero … un’univoca tradizione letteraria glielo indicava come poeta sovrano.» (Bosco – Reggio)

 

L’idea di un Limbo dei Padri […] e di un Limbo per le anime dei bambini che muoiono senza battesimo, appartiene alla teologia corrente: ospitare in quel luogo o in quei luoghi i pagani virtuosi fu […] un’invenzione di Dante. Per mitigare l’orrore di un’epoca avversa, il poeta cercò rifugio nella grande memoria romana. Volle onorarla […] ma non potè non capire […] che insistere troppo sul mondo classico non si addiceva ai suoi intenti dottrinali. Dante non poteva, contro la Fede, salvare i suoi eroi; li concepì in un Inferno negativo, privati della vista e del possesso di Dio nel cielo, e sentì pietà del loro misterioso destino.” (Jorge Luis Borges)

 

IL NOBILE CASTELLO

Nel nobile castello, tra i grandi e i saggi […] la poesia è raffrenata e il secco ragguaglio ne tiene luogo. Ammirazione, riverenza, malinconia, sono sentimenti accennati, ma non rappresentati.” (Benedetto Croce – La poesia di Dante, 1920)

 

“Il nobile castello, con le sue sette porte, sta ad indicare il cammino iniziatico degli antichi, che è la base per procedere a nuove conquiste spirituali.” (Adriana Mazzarella)

 

GLI SPIRITI MAGNI

“C’è un che di penoso museo delle cere in quel quieto recinto: Cesare armato e ozioso, Lavinia eternamente seduta accanto al padre, la certezza che domani sarà come oggi, che è come ieri, che è stato come tutti gli altri giorni.” (Jorge Luis Borges)

 

INFERNO, Canto IV

 

Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;    3

 

e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’io fossi.    6

 

Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa

che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.    9

 

Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.    12

 

“Or discendiam qua giù nel cieco mondo”,
cominciò il poeta tutto smorto.
“Io sarò primo, e tu sarai secondo”.    15

 

E io, che del color mi fui accorto,
dissi: “Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?”.    18

 

Ed elli a me: “L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.    21

 

Andiam, ché la via lunga ne sospigne”.
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l’abisso cigne.    24

 

Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare;    27

 

ciò avvenia di duol sanza martìri,
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.    30

 

Lo buon maestro a me: “Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,    33

 

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;    36

 

e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.    39

 

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio”.    42

 

Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.    45

 

“Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore”,
comincia’ io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore:    48

 

“uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?”.
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,    51

 

rispuose: “Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.    54

 

Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;    57

 

Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,    60

 

e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati”.    63

 

Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.    66

 

Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.    69

 

Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’orrevol gente possedea quel loco.    72

 

“O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’ hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?”.    75

 

E quelli a me: “L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza”.    78

 

Intanto voce fu per me udita:
“Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita”.    81

 

Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
sembianz’avevan né trista né lieta.    84

 

Lo buon maestro cominciò a dire:
“Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:    87

 

quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.    90

 

Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene”.    93

 

Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.    96

 

Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;    99

 

e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.    102

 

Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’era ’l parlar colà dov’era.    105

 

Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.    108

 

Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.    111

 

Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.    114

 

Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.    117

 

Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m’essalto.    120

 

I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.    123

 

Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.    126

 

Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.    129

 

Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.    132

 

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;    135

 

Democrito che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;    138

 

e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;   141

 

Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs che ’l gran comento feo.    144

 

Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.    147

 

La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.    150

 

E vegno in parte ove non è che luca.

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MINOSSE

«Minosse, re di Creta, figlio di Zeus e d’Europa, era nel mito saggio e severissimo legislatore; per questo gli antichi lo avevano immaginato come giudice infernale […]» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«[…] Queste dimore non sono assegnate senza sorteggio / e senza giudice. Minosse, inquisitore, scuote l’urna; / convoca il concilio dei morti silenziosi e apprende le vite e le colpe.» (Virgilio, Eneide)

 

LUSSURIOSI

«[I lussuriosi che la ragione sottomettono al talento] appaiono travolti da una inarrestabile tempesta; [sono puniti] in un eterno vortice di vento.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

FRANCESCA

«Francesca da Polenta, […] moglie del signore di Rimini Giovanni Malatesta detto Gianciotto perché sciancato, aveva una relazione con il fratello del marito Paolo Malatesta detto il Bello, lui pure sposato» (Marco Santagata)

 

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MINOSSE

«Minosse valuta ogni peccato che vede in quell’anima, per quell’alto offizio che gli è stato affidato dalla volontà divina, noi diremmo del Sé. Quella volontà appare estranea a peccatore, che non ha coscientemente riconosciuta la propria colpa: il dannato darà sempre la colpa del proprio stato agli altri, sentirà quella volontà ingiusta mentre inconsciamente la denuncia, la testimonia con la trasparenza dell’anima, non più difesa dall’opacità del corpo fisico. […] Minosse è una figura archetipa. Nel fluire della vita di ogni giorno egli vive nell’inconscio collettivo, dove lo ha messo dante: sottoterra, nell’Inferno. Al di là delle difese coscienti [Minosse rappresenta] quella voce di denuncia dal di dentro, tenendoci prigionieri del nostro peccato non confessato (repressione) o addirittura non riconosciuto (rimozione). […] Minosse sembra visualizzare la coscienza morale collettiva dell’umanità, ma anche la responsabilità del singolo individuo.» (Adriana Mazzarella)

 

FRANCESCA

«Dante, come teologo, come credente, come uomo etico, condanna quei peccatori; ma sentimentalmente non condanna e non assolve.» (Benedetto Croce – La poesia di Dante)

 

«L’Inferno di Dante è anche il luogo dei suoi peccati vinti, la sede delle sue tentazioni superate. Francesca […] è il primo dannato che conversa con Dante; la lussuria, il primo vizio ch’egli stacca da sé. Guarda e giudica. Che Dante superi Paolo, e che Beatrice superi Francesca […] vuol dire che è oltrepassato lo stadio dell’amor cortese, della mera probitas, dell’etica mondana, che perdura nello Stil Novo e si prolunga nella Vita Nova.» (Gianfranco Contini)

 

«Dante ci ripropone il rapporto uomo – natura nell’identità: io sono la mia terra. […] Dante è in esilio e l’inferno è l’esilio, mentre l’identità con la terra è la pace.» (Mario Pigazzini)

 

«Dante non comprende e non perdona; questo è il paradosso insolubile. Io penso che l’abbia risolto al di là della logica. Sentì (non comprese) che le azioni degli uomini sono necessarie e che è necessaria anche l’eternità, di beatitudine o di perdizione, che da queste consegue.» (Jorge Luis Borges)

 

«Dante non condanna Francesca. Qui trova voce soltanto la sua compassione. […] Non c’è rimedio al fatto che non potevano essere l’uno dell’altra. Per loro c’è solo quella lacerazione. C’è solo dolore. Nessun congiungimento. La nostra esistenza: con le distruzioni di una comunità umana, con le furie che si abbattono su tutte le nostre attività, con le dissonanze da cui siamo afflitti, con quei condizionamenti continui che portano all’alienazione da sé.» (Peter Weiss)

 

AMORE – AMORE CORTESE

“Francesca ha citato alcuni dei concetti più importanti del cosiddetto amor cortese […] però ignora o distorce il vero significato dell’amor cortese: mentre questo impone di sublimare il desiderio, lei riduce un sentimento che dovrebbe raffinare l’animo umano di chi lo prova a soddisfazione dei sensi, e quindi a lussuria.” (Mario Santagata)

 

“In Dante l’evocazione dei due amanti segue una terzina che convoca tutto il genere e gli eroi, dal Paride dell’Iliade al Tristano dei cavalieri arturiani della Table ronde […] Davanti alla memoria di Dante non sono che le donne antiche e’ cavalieri” (Carlo Ossola)

 

“È Amore il protagonista della vicenda, Paolo e Francesca ne sono prede; un amore che riguarda sempre la persona, il piacere, il possesso. Da un punto di vista psicologico, si tratta di una reciproca proiezione inconscia di Anima – Animus, per cui Paolo a Francesca diventano un’unica realtà inconscia che trascina con sé anche Gianciotto, il marito tradito, il quale tradisce a sua volta il legame di parentela, uccidendo la moglie e il fratello.” (Adriana Mazzarella)

 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona è una menzogna! La parafrasi moderna potrebbe essere questa: mi sono innamorato, che cosa ci posso fare? Lo subisco completamente. Ma è falso: anche l’amore, anche il più potente dei sentimenti umani, se vuole restare umano non deve diventare bestiale, deve restare appunto umano, cioè legato alla ragione, che è ciò che ci fa uomini.” (Franco Nembrini)

 

INFERNO, canto V

 

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.   3

 

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.   6

 

Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata   9

 

vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.   12

 

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.   15

 

«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,   18

 

«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?   21

 

Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».   24

 

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.   27

 

Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.   30

 

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.   33

 

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.   36

 

Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.   39

 

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali;   42

 

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.   45

 

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,   48

 

ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».   51

 

«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.   54

 

A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.   57

 

Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.   60

 

L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.   63

 

Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.   66

 

Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.   69

 

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.   72

 

I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».   75

 

Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».   78

 

Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».   81

 

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;   84

 

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.   87

 

«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,   90

 

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.   93

 

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.   96

 

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.   99

 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.   102

 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.   105

 

Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.   108

 

Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».   111

 

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».   114

 

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.   117

 

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».   120

 

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.   123

 

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.   126

 

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.   129

 

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.   132

 

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,   135

 

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».   138

 

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.   141

 

E caddi come corpo morto cade.

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CERBERO

«L’enorme Cerbero con latrato di tre fauci rintrona / i regni infernali, giacendo immane di fronte in un antro. / La profetessa, vedendo i colli arruffarsi di serpi, / gli getta un’offa soporosa di miele e di farina affatturata. / Quello con rabbiosa fame spalancando le tre gole / la afferra a volo, e rilassa le immani terga / sdraiato al suolo, ed enorme si estende per l’antro.» (Virgilio, Eneide)

 

«[…] Cerbero, drizzate le sue tre bocche, fece sentire tre latrati in una volta […] esiste una spelonca buia, dall’ingresso tenebroso, vi è una via in pendio, attraverso la quale l’eroe di Tirinto trascinò fuori, avvinto con catene d’acciaio Cerbero, che resisteva e storceva gli occhi per evitare la splendente luce del sole: questo, eccitato da una rabbia furiosa, riempì l’aria con tre latrati insieme e bagnò i verdi campi con la bava bianchiccia […]» (Ovidio, Metamorfosi)

 

CIACCO

«[Ciacco] molto probabilmente era quello che allora veniva chiamato un “uomo di corte”, cioè un cliente di grandi famiglie facoltose, le quali, per ostentare la loro ricchezza, scimmiottavano lo stile di vita dell’antica nobiltà feudale offrendo grandi pranzi, quel che si diceva “tenere corte imbandita.» (Marco Santagata)

 

LA GOLA

«[I golosi diguazzano] nel fango come in vita diguazzarono fra le ghiottonerie.» (Attilio Momigliano)

 

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CERBERO

«Cerbero è fra le più grottesche figure di guardiani infernali. […] È il mostro della voracità e sta a guardia dei voraci diguazzanti nel fango come in vita diguazzarono fra le ghiottonerie. La sua figurazione è tutta avvolta nella paura e nel frastuono: con tre gole caninamente latra; il gran vermo; le bramose canne; quelle facce lorde dello demonio Cerbero che introna l’anime sì ch’esser vorrebber sorde. Ma in quest’alone fantastico si move una vitalità da fiera, che il poeta ha studiato sulla natura con il solito sguardo incisivo. La figura di Cerbero di fronte a Virgilio è tutta tesa e squassata da uno stupendo fremito di vita.» (Attilio Momigliano)

 

«Cerbero classicamente fiera, fantasticamente vermo, cristianamente Demonio.» (Isidoro Del Lungo)

 

«I poeti antichi lo rappresentano come un cane con tre teste e con coda e crini di serpente. Dante ne fa un mostro misto di elementi umani e bestiali; ne sottolinea la voracità insaziabile, la crudeltà ferina, le note ripugnanti dell’aspetto, le facce lorde […] trasfigura l’immagine in simbolo con attributi e funzioni medievalmente fantastici e grotteschi, imprime poi alla sua figura una fremente vitalità animalesca […]» (Natalino Sapegno)

 

CIACCO

«Il Ciacco dantesco, quale ci appare nella dimensione psicologica dell’eternità, ridimensiona il suo tempo umano per quel tanto che propone nel colloquio con Dante, e in cui confessa il suo peccato di gola, ma anche tutta l’amarezza delle tristi vicende della sua città, la cui nostalgia è accomunata al ricordo della vita serena, della terra perduta insieme con le sue dolcezze sensorie.» (Giuseppe Giacalone)

 

«[…] un giorno anche il giardino di casa tua / finirà per essere fuorilegge […] Sicuramente era una buona idea / finché l’avidità si è messa di traverso / La democrazia non governa il mondo / meglio che te lo ficchi bene in testa / Questo mondo è governato dalla violenza / ma credo che sia meglio non dirlo […]» (Bob Dylan, Union Sundown)

 

LA GOLA

«La gola. Il peccato è qui più grave della lussuria, in quanto questa, pur essendo una degradazione dell’amore, comporta sempre una tensione di relazione verso l’altro. I golosi, invece, sono più egocentrici, si ingozzano solo per il piacere in sé stesso. […] identificarsi con i piaceri della gola ci attribuisce a un livello bestiale e ci impedisce di coltivarci in modo più armonico.» (Adriana Mazzarella)

 

INFERNO, Canto VI

 

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,    3

 

novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.    6

 

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.    9

 

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.    12

 

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.    15

 

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.    18

 

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.    21

 

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.    24

 

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.    27

 

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,    30

 

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.    33

 

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.    36

 

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.    39

 

“O tu che se’ per questo ’nferno tratto”,
mi disse, “riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto”.    42

 

E io a lui: “L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.    45

 

Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente”.    48

 

Ed elli a me: “La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.    51

 

Voi Cittadini mi chiamaste Ciacco
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.    54

 

E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa”. E più non fé parola.    57

 

Io li rispuosi: “Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno    60

 

li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ ha tanta discordia assalita”.    63

 

E quelli a me: “Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.    66

 

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.    69

 

Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.    72

 

Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’ hanno i cuori accesi
“.  
 75

 

Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: “Ancor vo’ che mi ’nsegni
e che di più parlar mi facci dono.    78

 

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,    81

 

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca”.    84

 

E quelli: “Ei son tra l’anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.    87

 

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo”.    90

 

Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.    93

 

E ’l duca disse a me: “Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:    96

 

ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba”.    99

 

Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;    102

 

per ch’io dissi: “Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?”.    105

 

Ed elli a me: “Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.    108

 

Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta”.    111

 

Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:    114

 

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

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PLUTO

«Il dio delle ricchezze, figlio di Jasione e Demetra, fu confuso con il più noto Plutone, figlio di Crono e Rea, re dell’Averno […] i due nomi infatti valgono ugualmente, in greco e in latino, come ricco. Tale confusione […] i moderni tendono ad attribuirla anche a Dante: ma Dante distingue i due: egli chiamerà Dite Lucifero, che è di fatto il re infernale, come il Dite dell’Eneide, mentre mette Pluto a custodia del cerchio degli avari e prodighi.» (Chiavacci Leonardi)

 

GLI AVARI E PRODIGHI

«Ciechi e senza luce di ragione appaiono qui i peccatori, in eterno condannati a sospingere enormi massi avanti e indietro, in cerchio, come l’antico Sisifo.» (Chiavacci Leonardi)

 

«La prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti che riguardano i beni materiali. E mentre attribuiamo il termine avarizia sempre a coloro che si preoccupano dei beni materiali più di quanto bisogna, talora applichiamo il termine prodigalità comprendendo insieme più significati: chiamiamo, infatti, prodighi gli incontinenti e coloro che scialacquano per soddisfare la loro intemperanza.» (Aristostele, Etica Nicomachea)

 

«Infatti non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via. Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo.  Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione.  L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da sé stessi tormentati con molti dolori.» (San Paolo, Prima Lettera a Timoteo)

 

IRACONDI E ACCIDIOSI

«[Iracondi] Questi spiriti sono caratterizzati fisicamente dal fango che li ricopre […].  [Si percuotono] a vicenda gli uni con gli altri. [Accidiosi] Confitti nel fango sul fondo della palude […] è come una fitta nebbia che avvolge l’anima di questi peccatori, impedendo loro ogni moto, ogni azione […] l’acqua entra loro nella gola, impedendogli di pronunziare le parole che diventano quindi un gorgoglio.» (Chiavacci Leonardi)

 

«In ira nasce e posa / accidia nighittosa: / ché, chi non puote in fretta / fornir la sua vendetta / … l’odio fa come suole, / che sempre monta e cresce / né di mente non li esce; / ed è ‘n tanto tormento/ che non ha pensamento / di neun bene che sia.» (Brunetto Latini, Tesoro)

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LA PALUDE STIGIA

«La Stigia viene chiamata morta gora e lurido pantano, perché quell’inerzia – accidia è un’energia da sviluppare in bene o in male, secondo la scelta che all’uomo è dato di fare. Se questa energia non è utilizzata nel modo giusto, si imputridisce e forma il lurido pantano che il gran puzzo spira: analogicamente i cibi, che in sé sono utili come nutrimento, se vengono abbandonati o non digeriti marciscono e diventano maleodoranti.» (Adriana Mazzarella)

 

IRACONDI E ACCIDIOSI

«Nel commento dell’Etica aristotelica, S. Tommaso distingueva tra gli iracondi, i “pronti all’ira”, la quale in essi “non dura molto tempo”; gli “amari”, la cui ira dura a lungo, e si placa quando essi riescono a vendicarsi dell’offesa ricevuta o che pensano di aver ricevuta, o anche, sia pure lentamente, col tempo; infine, i “difficili” o i “gravi”, la cui ira si distingue solo con la vendetta.» (Umberto Bosco – Giovanni Reggio)

INFERNO, Canto VII

 

Pape Satàn, pape Satàn aleppe!“,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,    3

 

disse per confortarmi: “Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia”.    6

 

Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: “Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.    9

 

Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo”.    12

 

Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.    15

 

Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.    18

 

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?    21

 

Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi.    24

 

Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.    27

 

Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”.    30

 

Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;    33

 

poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,    36

 

dissi: “Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra”.    39

 

Ed elli a me: “Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.    42

 

Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.    45

 

Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio
“.
   48

 

E io: “Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali”.    51

 

Ed elli a me: “Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.    54

 

In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.    57

 

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.    60

 

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabuffa;    63

 

ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una”.    66

 

“Maestro mio”, diss’io, “or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?”.    69

 

E quelli a me: “Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!

Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.    72

 

Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,    75

 

distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce    78

 

che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;    81

 

per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.    84

 

Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.    87

 

Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.    90

 

Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;    93

 

ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.    96

 

Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta”.    99

 

Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.    102

 

L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.    105

 

In la palude va c’ ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’è disceso
al piè de le maligne piagge grige.    108

 

E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.    111

 

Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.    114

 

Lo buon maestro disse: “Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi    117

 

che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.    120

 

Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:    123

 

or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra”.    126

 

Così girammo de la lorda pozza
grand’arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.    129

 

Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.

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FLEGIAS

«[…] e miserrimo Flegias ammonisce / ognuno, e attesta ad alta voce per l’ombre: / “Apprendete giustizia dall’esempio, e a non spregiare gli dei.”» (Virgilio, Aen VI 618 – 620)

 

«[…] facendo vendetta in tuo nome, la truce Megera schiaccia in eterno sotto di sé Flegia, che giace digiuno in un antro, e lo provoca con ripugnanti vivande: ma la nausea si sovrappone alla fame e la vince.» (Stazio, Theb I 713)

 

«E, avanti che piú si proceda, è da sapere che […] questo Flegias fu figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante e fastidioso contro agl’iddii.» (Boccaccio)

 

«Personaggio mitologico, figlio di marte e Crise, condannato al Tartaro per aver incendiato il tempio di Apollo in Delfi, irato col dio che gli aveva sedotto la figlia.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

FILIPPO ARGENTI

«Fu questo Filippo Argenti […] de’ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare d’ariento, e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e nerboruto e di maravigliosa forza e, piú che alcuno altro, iracundo, eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere piú si sanno che queste due, assai ciascuna per se medesima biasimevole. E per lo suo molto essere iracundo scrive l’autore lui essere a questa pena dannato.» (Giovanni Boccaccio)

 

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FILIPPO ARGENTI

«In quella persona orgogliosa, la cui arroganza era nota in tutta Firenze, e gli respinge e attuffa nel pantano tutti coloro che con la loro tracotanza, con il loro tenersi grandi, opprimono gli altri e provocano quelle terribili discordie civili che allora affliggevano la vita politica. […] “[Dante] vuole elevare [questo episodio] ben al di sopra dell’ambito di un privato rancore: egli rappresenta qui […] una colpa particolarmente grave e pericolosa: quell’arroganza orgogliosa, dovuta al credersi più degli altri, propria dei grandi di questo mondo che provoca odi, risse, terribili risentimenti.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

LA PORTA DELLA CITTÀ DI DITE

«Questa seconda porta è aperta per i dannati che precipitano in basso verso il loro limite, ma si chiude rabbiosamente di fronte al ricercatore, poiché le forze del male, i diavoli ne sono padroni.  […] Cristo ha iniziato il processo di conoscenza lasciando aperta la prima porta per coloro che vogliono seguire quella via […] Cristo ha aperto la via, ma ogni uomo deve volerla percorrere individualmente. Per aprire la seconda porta che si chiude con fracasso di fronte al ricercatore occorrono, oltre alla fede, una volontà personale unita alla volontà di Dio, del Sé. […] Il ricercatore [varca] la pericolosa soglia dell’inconscio collettivo.» (Adriana Mazzarella)

 

I DIAVOLI

«Essi rappresentano qualcosa di ineluttabile, di cosmico; analogamente agli angeli sono nuclei energetici archetipi, autonomi, potenti, ma molto profondi dell’inconscio collettivo; sono misteriosamente collegati col cielo.» (Adriana Mazzarella)

 

INFERNO, Canto VIII

 

Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima    3

 

per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.    6

 

E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: “Questo che dice? e che risponde
quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?”.    9

 

Ed elli a me: “Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,
se ’l fummo del pantan nol ti nasconde”.    12

 

Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’io vidi una nave piccioletta    15

 

venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
che gridava: “Or se’ giunta, anima fella!“.    18

 

“Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto”,
disse lo mio segnore, “a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto”.    21

 

Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.    24

 

Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand’io fui dentro parve carca.    27

 

Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua più che non suol con altrui.    30

 

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?”.    33

 

E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”.
Rispuose: “Vedi che son un che piango”.    36

 

E io a lui: “Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto”.    39

 

Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: “Via costà con li altri cani!”.    42

 

Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: “Alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse!    45

 

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.    48

 

Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!
“.
   51

 

E io: “Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago”.    54

 

Ed elli a me: “Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda”.    57

 

Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.    60

 

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.    63

 

Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
per ch’io avante l’occhio intento sbarro.    66

 

Lo buon maestro disse: “Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo”.    69

 

E io: “Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite    72

 

fossero”. Ed ei mi disse: “Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno”.    75

 

Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.    78

 

Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
“Usciteci”, gridò: “qui è l’intrata”.    81

 

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: “Chi è costui che sanza morte    84

 

va per lo regno de la morta gente?”.
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.    87

 

Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.    90

 

Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada”.    93

 

Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.    96

 

“O caro duca mio, che più di sette
volte m’ hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,    99

 

non mi lasciar”, diss’io, “così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto”.    102

 

E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: “Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.    105

 

Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso”.    108

 

Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.    111

 

Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.    114

 

Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.    117

 

Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
Chi m’ ha negate le dolenti case!“.    120

 

E a me disse: “Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.    123

 

Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.    126

 

Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,    129

 

tal che per lui ne fia la terra aperta”.

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LA MAGA ERITONE

«Nella Farsaglia Lucano racconta che la maga tessala Eritone aveva fatto tornare in vita un morto affinchè profetizzasse a Sesto, il figlio di Pompeo, l’esito della battaglia di Farsalo, tra il padre e Giulio Cesare. L’episodio a cui accenna Virgilio è invece un’invenzione di Dante.» (Mario Santagata)

 

«La feroce Eritto […] abitava nelle tombe abbandonate ed occupava i sepolcri, dopo averne cacciato le ombre, grazie ai favori accordatile dalle divinità infernali: […] una magrezza spaventosa dominava nel volto dell’empia e sul suo viso, dominato da chiome scarmigliate e che non aveva mai conosciuto il cielo sereno, gravava orribilmente un pallore infernale: […] Ella seppellisce nei sepolcri anime ancora in vita e che sostengono ancora i corpi, mentre la morte è costretta a presentarsi per altri, il cui fato aveva assegnato anni di vita[…] non poche volte, durante il funerale di un congiunto, la spietata strega tessalica si getta sulla cara salma e, imprimendovi baci, ne mutila la testa ed allarga con i denti la bocca irrigidita del cadavere, sì che, mordendo la parte anteriore della lingua che aderisce all’arido palato, infonde tra le labbra gelate un mormorio ed invia un empio messaggio alle ombre dello Stige.» (Lucano, Farsaglia)

 

LE FURIE

«Erinni era il nome greco delle Furie. […] nell’antichità raffiguravano i rimorsi delle colpe commesse che infuriavano nella coscienza degli uomini […] più congruamente con il testo di Dante […] esse simboleggerebbero i peccati compiuti con la mente, la parola e l’azione.» (Mario Santagata)

 

«Subito Tisifone, vendicatrice, armata di flagello / percuote assalendoli i colpevoli, e avventando con la sinistra / ritorti serpenti, chiama la crudele schiera delle sorelle. […] Dette queste parole, discese terribile in terra: / evoca la luttuosa Aletto dalla sede delle orribili dee, e dalle tenebre infernali, lei che ama le guerre / dolorose e le ire e le insidie e i nocivi delitti. […]  Vi sono due pesti gemelle, che chiamano Dire: / la fosca Notte le generò insieme alla tartarea / Megera in un unico parto; e le cinse di uguali / spire di serpi, e aggiunse ali ventose.» (Virgilio, Eneide)

 

MEDUSA

«[Perseo] arrivò alla casa delle Gorgoni e vide […] figure di uomini e di belve che, per aver guardato la Medusa, erano stati mutati in pietra, perdendo la loro natura.» (Ovidio, Metamorfosi)

 

IL MESSO DIVINO

«Ma alla quarta vigilia della notte Gesù andò verso loro, camminando sul mare. E i discepoli, vedendolo camminar sul mare, si turbarono e dissero: É un fantasma! E dalla paura gridarono. […]» (Matteo, 14, 25 – 30)

 

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LE FURIE

«Nell’antica mitologia, le Furie rappresentavano il rimorso della coscienza che perseguita l’uomo e lo porta alla disperazione infuriando appunto dentro di lui […] ma Dante ignorava quasi certamente questo significato e sembra più credibile che egli si rifaccia all’interpretazione più diffusa al suo tempo […] secondo la quale […] esse figurano le tre forme che il male assume nell’uomo: prava cogitatio, prava elocutio, prava operatio(Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Le tre Furie […] sono le ancelle della regina degli inferi Proserpina; rappresentano i rimorsi per aver violato le leggi della Grande Madre, la natura, che qui compare in modo vendicativo, come Gorgona, in tutta la sua forza distruttiva.» (Adriana Mazzarella)

 

MEDUSA

«Medusa era la minore delle tre Gorgoni, figlie del dio marino Forco; rapita da Nettuno, fu punita da Minerva, che le cambiò i capelli in serpenti; fu uccisa da Perseo. Il suo occhio pietrificava chi la guardasse. Dante in modo figurale volge l’allegoria dei poeti, in allegoria dei teologi, assumendola come simbolo della dannazione, della disperazione della salvezza, cioè essendo a servizio delle Furie, simbolo dei rimorsi della coscienza, deve significare evidentemente la conseguenza dannosa del rimorso divenuto insopportabile e dà luogo alla disperazione.» (Giuseppe Giacalone)

 

«[Medusa] è l’immagine della natura istintiva che impedisce all’uomo di uscire dalla sua naturalità.» (Adriana Mazzarella)

 

IL MESSO DIVINO

«Il messo divino […] è simbolo che esprime la messa in moto di un’energia attiva collegata col Sé, in grado di affrontare e trasformare la violenza della matta bestialitate.» (Adriana Mazzarella)

 

INFERNO, Canto IX

 

Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.    3

 

Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.    6

 

“Pur a noi converrà vincer la punga”,
cominciò el, “se non … Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!”.    9

 

I’ vidi ben sì com’ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;    12

 

ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.    15

 

“In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?”.    18

 

Questa question fec’io; e quei “Di rado
incontra”, mi rispuose, “che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.    21

 

Ver è ch’altra fïata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.    24

 

Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.    27

 

Quell’è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.    30

 

Questa palude che ’l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u’ non potemo intrare omai sanz’ira”.    33

 

E altro disse, ma non l’ ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,    36

 

dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,    39

 

e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.    42

 

E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
“Guarda”, mi disse, “le feroci Erine.    45

 

Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo”; e tacque a tanto.    48

 

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.    51

 

“Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto”,
dicevan tutte riguardando in giuso;
“mal non vengiammo in Tesëo l’assalto”.    54

 

“Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso”.    57

 

Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.    60

 

O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani.    
63

 

E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,    66

 

non altrimenti fatto che d’un vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento    69

 

li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.    72

 

Li occhi mi sciolse e disse: “Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo”.    75

 

Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,    78

 

vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte.    81

 

Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.    84

 

Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.    87

 

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.    90

 

“O cacciati del ciel, gente dispetta”,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
“ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?    93

 

Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ ha cresciuta doglia?    96

 

Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”.    99

 

Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda    102

 

che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.    105

 

Dentro li ’ntrammo sanz’alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,    108

 

com’io fui dentro, l’occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.    111

 

Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,    114

 

fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ’l modo v’era più amaro;    117

 

ché tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.    120

 

Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.    123

 

E io: “Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell’arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?”.    126

 

E quelli a me: “Qui son li eresïarche
con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.    129

 

Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi”.
E poi ch’a la man destra si fu vòlto,    132

 

passammo tra i martìri e li alti spaldi.

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ERETICI – EPICURO

«Epicuro, essendo vissuto prima del Cristianesimo, non può essere considerato propriamente un eretico, ma ai tempi di Dante era diffusa la prassi di chiamare «epicuri» quelli che non credevano nell’immortalità dell’anima.» (Mario Santagata)

 

«I coperchi saranno chiusi nel giorno del giudizio universale quando le anime rivestiranno i loro corpi e li riporteranno per sempre in quelle tombe […] Le tombe aperte aspettano dunque i corpi dei dannati. Il riferimento al Giudizio […] riporta sempre in primo piano il corpo, ora sepolto, ma che dovrà risorgere, quasi anticipando quella realtà nella fantasia, e già rendendo in qualche modo corporea, per riflesso, la realtà di ombre che ora ci sta avanti.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

FARINATA DEGLI UBERTI

«Manente degli Uberti, detto Farinata, è […] il capo carismatico dei Ghibellini di Firenze intorno alla metà del Duecento. Nel 1260 fu tra i capi della coalizione formata dai fuoriusciti ghibellini di Firenze […] Nel 1283 l’inquisitore di Firenze, con un processo postumo condannò lui e i suoi eredi per eresia: il cadavere fu dissepolto e le ossa arse al rogo.» (Mario Santagata)

 

CAVALCANTE

«[…] è Cavalcante dei Cavalcanti, padre del poeta Guido, ritenuto in Firenze, come Cavalcanti, colpevole dell’eresia epicurea. É un altro mondo che qui si affaccia, anch’esso fiorentino e […] strettamente legato a Dante, forse più del primo: è il mondo letterario degli intellettuali, del primo amico Guido. […] La Firenze di allora sembra entrare con violenza sulla scena, le voci stesse di allora risuonano qui nel cerchio infernale.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

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ERETICI – EPICURO

«Dio non fa promesse che lui non mantiene / Tu fai dei gran bei sogni, mia bella, ma per sognare vuol dire / che dormi […] Filosofie contraffatte ti hanno inquinato tutti i pensieri / Karl Marx ti ha preso alla gola, Henry Kissinger ti tiene annodato […] Consiglieri spirituali e guru per guidarti  in ogni mossa / immediata pace interiore e ogni passo che fai deve essere approvato […] Adùlteri in chiesa e pornografia a scuola / Ci sono gangster al potere e condannati che dettano le regole […] presunti dottori che spacciano droghe che non cureranno mai i tuoi mali.» (Bob Dylan, When you gonna wake up, 1979)

 

«I due viandanti volgono verso destra. […] La destra indica la coscienza, la contemplazione e la ricerca spirituale. Per quanto sia qui un limite, l’eresia è pur volta verso una ricerca che riguarda il trascendente, lo spirito, il divino: per questo il ricercatore che sta compiendo faticosamente il cammino volge a destra, perché si tratta di una ricerca spirituale.» (Adriana Mazzarella)

 

FARINATA DEGLI UBERTI

«Un uomo che si erge in tutta la sua umana statura, pieno di dignità e fierezza e insieme superbia e alterigia. […] Questo dispitto è parola chiave di tutto l’episodio […] Tale atteggiamento è proprio di questi uomini, grandi d’animo e di intelletto, che proprio per esso restano per sempre al di qua del loro compimento eterno.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Il significato di quel tutto è nell’opinione che Dante ha preconcetta di Farinata e vuol dire: – Lo vedrai in tutta la sua grandezza – tenendo così l’ufficio di quel che nelle arti plastiche si chiama rilievo, servendo cioè a trasfigurare il reale e a dargli le proporzioni che gli attribuisce la fantasia.» (Francesco De Sanctis)

 

«Farinata era noto, come Cavalcanti e un po’ tutti gli intellettuali dell’epoca, per aver abbracciato l’eresia dei catari, dalla quale Dante stesso era affascinato. L’eresia catara, o della contrapposizione dualistica tra il bene e il male, tra anima e corpo, tra immortalità e ragione, tra trascendenza e immanenza, tra divino e umano, suscitava un grande fascino perché spingeva l’uomo d’ingegno verso il massimo della sua identità, verso il massimo della ricerca intellettuale. […] In […] Farinata si coglie anche una grande ambivalenza tra l’orgoglio, con un pizzico di arroganza e la magnanimità: ne nasce una sincera consapevolezza della sua superiorità, di chi sa avere uno sguardo diverso, più intenso e profondo degli altri. […] farinata si presenta con un Io molto forte […] Come ogni grande uomo, l’ambizione sfiora il narcisismo e la megalomania.» (Mario Pigazzini)

 

«Forse qui Dante si rivolge a sé stesso: ha bisogno di riconoscere meglio in sé quell’aspetto dell’ombra che, pur eroica e valorosa, è troppo unilaterale. […] Dante è in viaggio verso la conoscenza di un’altra patria, più universale: la patria dell’uomo al di là del partito, la patria dell’anima.» (Adriana Mazzarella)

 

CAVALCANTE

«Cavalcante appare, non dritto e virile come Farinata, ma umile, abbattuto, forse inginocchiato e domanda dubbiosamente del figlio. […] Cavalcante si affloscia ma Farinata non muta aspetto, non mosse collo, non piega costa. Cavalcante cade supino, Farinata non ha nessun gesto di abbattimento; Dante analizza negativamente Farinata per suggerire […] lo stravolgimento del sembiante [di Cavalcante], la testa che ricade, il dorso che si piega.» (Antonio Gramsci, Il decimo canto dell’Inferno)

 

INFERNO, Canto X

 

Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.    3

 

“O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi”, cominciai, “com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.    6

 

La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face”.    9

 

E quelli a me: “Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.    12

 

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.    15

 

Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci”.    18

 

E io: “Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’ hai non pur mo a ciò disposto”.    21

 

“O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.    24

 

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto”.    27

 

Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.    30

 

Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai”.    33

 

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.    36

 

E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: “Le parole tue sien conte”.    39

 

Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?”.    42

 

Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;    45

 

poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi”.    48

 

“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”,
rispuos’io lui, “l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte”.    51

 

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.    54

 

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,    57

 

piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?”.    60

 

E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.    63

 

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.    66

 

Di sùbito drizzato gridò: “Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”.    69

 

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.    72

 

Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;    75

 

e sé continüando al primo detto,
“S’elli han quell’arte”, disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.    78

 

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.    81

 

E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?”.    84

 

Ond’io a lui: “Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio”.    87

 

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
“A ciò non fu’ io sol”, disse, “né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.    90

 

Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto”.    93

 

“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
prega’ io lui, “solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.    96

 

El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo”.    99

 

“Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose”, disse, “che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.    102

 

Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.    105

 

Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta”.    108

 

Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: “Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto;    111

 

e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto”.    114

 

E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.    117

 

Dissemi: “Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio”.    120

 

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.    123

 

Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”.
E io li sodisfeci al suo dimando.    126

 

“La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te”, mi comandò quel saggio;
“e ora attendi qui”, e drizzò ’l dito:    129

 

“quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio”.    132

 

Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,    135

 

che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

Citazioni colonna di sinistra

ANASTASIO II

«Papa vissuto al tempo dell’eresia monofisita di Acacio, patriarca di Costantinopoli; a questa eresia Anastasio sarebbe stato indotto dal diacono Fotino.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

INCONTINENZA, MALIZIA E MATTA BESTIALITADE

«[…] per quel che concerne i comportamenti, tre sono le specie di comportamento da evitare: vizio, incontinenza, bestialità. I contrari di due di esse sono evidenti, e li chiamiamo uno virtù e l’altro continenza. In contrapposizione alla bestialità il termine più adatto da usare sarebbe quello di “virtù sovrumana”, una specie di virtù eroica e divina […].» (Aristotele, Etica Nicomachea)

 

INFERNO, Canto XI

 

In su l’estremità d’un’alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;    3

 

e quivi, per l’orribile soperchio
del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio    6

 

d’un grand’avello, ov’io vidi una scritta
che dicea: ’Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta’.    9

 

“Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo”.    12

 

Così ’l maestro; e io “Alcun compenso”,
dissi lui, “trova che ’l tempo non passi
perduto”. Ed elli: “Vedi ch’a ciò penso”.    15

 

“Figliuol mio, dentro da cotesti sassi”,
cominciò poi a dir, “son tre cerchietti
di grado in grado, come que’ che lassi.    18

 

Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti.    21

 

D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista,
ingiuria è ‘l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.    24

 

Ma perché frode è de l’uom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale.    27

 

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.    30

 

A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.    33

 

Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;    36

 

onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.    39

 

Puote omo avere in sé man vïolenta
e ne’ suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta    42

 

qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov’esser de’ giocondo.    45

 

Puossi far forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;    48

 

e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.    51

 

La frode, ond’ogne coscïenza è morsa,
può l’omo usare in colui che ‘n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.    54

 

Questo modo di retro par ch’incida
pur lo vinco d’amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s’annida    57

 

ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.    60

 

Per l’altro modo quell’amor s’oblia
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
di che la fede spezïal si cria;    63

 

onde nel cerchio minore, ov’è ’l punto
de l’universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto”.    66

 

E io: “Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.    69

 

Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s’incontran con sì aspre lingue,    72

 

perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?”.    75

 

Ed elli a me “Perché tanto delira”,
disse, “lo ’ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira?    78

 

Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ’l ciel non vole,    81

 

incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?    84

 

Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza,    87

 

tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata
la divina vendetta li martelli”.    90

 

O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.    
93

 

Ancora in dietro un poco ti rivolvi”,
diss’io, “là dove di’ ch’usura offende
la divina bontade, e ’l groppo solvi”.    96

 

“Filosofia”, mi disse, “a chi la ’ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende    99

 

dal divino ’ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,    102

 

che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.    105

 

Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;    108

 

e perché l’usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene.    111

 

Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,    114

 

e ’l balzo via là oltra si dismonta”.

Citazioni colonna di sinistra

IL MINOTAURO

«Il mito racconta che Pasifae, moglie di Minosse re di Creta, invaghitasi di un toro, per accoppiarsi con lui si nascose all’interno di una vacca di legno, e in seguito diede alla luce un mostro con il corpo di uomo e la testa di toro (ma Dante inverte le due nature).» (Marco Santagata)

 

I CENTAURI:

NESSO

«Ma tu selvaggio Nesso, a causa dell’ardente amore per la stessa fanciulla peristi, trafitto nella schiena da una veloce saetta. […] “Parlo a te Nesso dalle due nature. Ascoltami e non rapire quanto mi appartiene […] Tuttavia non la scamperai, anche se confidi nella tua forza equina; ti raggiungerò con le armi e non con i piedi”. Conferma i fatti con le parole e, scagliando una freccia, trafigge la schiena di quello che se ne fuggiva: il ferro adunco, usciva dal petto. Allora [Nesso] offre in dono alla donna abbrancata la sua tunica intrisa di sangue ancora caldo, quasi un filtro per stimolare l’amore.» (Ovidio, Metamorfosi)

 

CHIRONE

«La notte induce al sonno: il Centauro distende il suo vasto corpo sopra una roccia e Achille amorevole gli si rannicchia contro le spalle: benché lì sia la fida madre, preferisce quel petto a lui familiare.» (Stazio, Achilleide)

 

FOLO

«Fuggì anche Orneo e Licabante e Medonte ferito alla spalla destra e Taomante con Pisenore e Mermero, che poco prima aveva vinto tutti in una gara di corsa e Folo e Melaneo e Abante gran cacciatore di cinghiali e l’augure Astilo, che invano aveva sconsigliato ai suoi lo scontro.» (Ovidio, Metamorfosi)

 

Citazioni colonna di destra

IL MINOTAURO

«La furia del Minotauro è fine a sé stessa; è una debolezza della personalità, la quale, posseduta dall’aspetto archetipico negativo simboleggiato da Marte, si svuota di tutta la sua energia infierendo mentre la coscienza diventa cieca. […] Il Minotauro è il simbolo dello stato di possessione in cui si cade quando da un’incontinenza semi-conscia o inconscia, o da una perdonabile debolezza, si diventa mezzo uomo e mezzo bestia, quasi dementi e privi di ragione. Non c’è la capacità da parte del sentimento (Pasifae) di mettersi in relazione in modo obiettivo con le pulsioni biologiche […] Ogni volta che non utilizziamo la funzione di sentimento per entrare in contatto con i nostri istinti di potere o i nostri desideri compensatori di frustrazione e sofferenza, manteniamo in vita il Minotauro, che non è un animale e neppure un uomo, ma un mostro che si ciba di noi e dei nostri ingenui sforzi di apparire potenti. […] Allora il Minotauro ingigantisce nell’inconscio e balza fuori in modo improvviso e coatto non appena la coscienza allenta le sue difese.» (Adriana Mazzarella)

 

«Il minotauro è il guardiano della violenza, un mostro nato da un toro e Pasifae, cioè dall’unione del potere dell’Io e dai sentimenti, ed è caratterizzato da una furia incontenibile e fine a sè stessa. […] Il Minotauro ha la testa del toro e il corpo umano perché simboleggia lo strapotere delle pulsioni, è assente la logica, il raziocinio e viene sconfitto dalla sua stessa stupidità.» (Giorgia Sitta, Tutti all’Inferno)

 

I CENTAURI

«I centauri fanno da guida a dante e Virgilio, come energie messe a disposizione per servire la conoscenza(Adriana Mazzarella)

 

«Il centauro, con la parte superiore del corpo umana e la metà inferiore animalesca è in opposizione al Minotauro: le forti pulsioni sono state messe a servizio dell’uomo e della sua ricerca e permettono il passaggio attraverso la violenza non contenuta (Giorgia Sitta, Tutti all’inferno)

 

INFERNO, Canto XII

 

Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.    3

 

Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,

o per tremoto o per sostegno manco,    6

 

che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:    9

 

cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa    12

 

che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.    15

 

Lo savio mio inver’ lui gridò: “Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?    18

 

Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene”.    21

 

Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,    24

 

vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: “Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale”.    27

 

Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.    30

 

Io gia pensando; e quei disse: “Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata
da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi.    33

 

Or vo’ che sappi che l’altra fïata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.    36

 

Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,    39

 

da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda    42

 

più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.    45

 

Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vïolenza in altrui noccia”.    48

 

Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!    51

 

Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;    54

 

e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.    57

 

Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;    60

 

e l’un gridò da lungi: “A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro”.    63

 

Lo mio maestro disse: “La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta”.    66

 

Poi mi tentò, e disse: “Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.    69

 

E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira.    72

 

Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille”.    75

 

Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.    78

 

Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: “Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?    81

 

Così non soglion far li piè d’i morti”.
E ’l mio buon duca, che già li er’al petto,
dove le due nature son consorti,    84

 

rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.    87

 

Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.    90

 

Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,    93

 

e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada”.    96

 

Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: “Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa”.    99

 

Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.    102

 

Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: “E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.    105

 

Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni.    108

 

E quella fronte c’ ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero    111

 

fu spento dal figliastro sù nel mondo”.
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
“Questi ti sia or primo, e io secondo”.    114

 

Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’una gente che ’nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.    117

 

Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: “Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola”.    120

 

Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
e di costoro assai riconobb’io.    123

 

Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.    126

 

“Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema”,
disse ’l centauro, “voglio che tu credi    129

 

che da quest’altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.    132

 

La divina giustizia di qua punge
quell’Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge    135

 

le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra”.    138

 

Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.

Citazioni colonna di sinistra

ARPIE

«[…] sono denominate Strofadi, col nome greco, / le isole del vasto Ionio, che la sinistra Celeno / e le altre Arpie abitano, dopo che la casa di Fineo / si chiuse, e per timore lasciarono le antiche mense. / Non v’è mostro più infausto di quelle; nessuna peste / più crudele o maledizione divina uscì dalle onde stigie. / Virginei volti su corpi di uccelli, nauseante profluvio / di ventre, arti adunchi, e pallida sempre / la faccia di fame». (Virgilio, Eneide III)

 

I SUICIDI

«M’appressai, e tentando di svellere dal suolo un verde / cespuglio, per coprire le are di rami frondosi, / orrendo e mirabile a dirsi vedo un prodigio. / Infatti dall’arbusto che strappo dal suolo per primo, / spezzate le radici, colano gocce di nero sangue / e macchiano la terra di putredine. Un freddo brivido / mi scuote le membra, e il sangue si gela per il terrore. […]  “Devo parlare o tacere?” s’ode un lacrimoso gemito / dalla base del cumulo, e una voce uscendone raggiunge gli orecchi: / “Perché laceri uno sventurato, o Enea? Risparmia un cadavere; / risparmia di profanare le pie mani. Troia mi ha generato / non estraneo a te, e il sangue che vedi non sgorga dal legno. / Oh fuggi terre crudeli, fuggi un avido lido. / Sono Polidoro. Qui mi trafisse e mi coprì / una ferrea messa di dardi e crebbe di acute aste”» (Virgilio, Eneide III)

 

PIER DELLA VIGNA

«È Pier della Vigna […] ai tempi di Dante famoso soprattutto come raffinato estensore di epistole in latino e come importante funzionario alla corte dell’imperatore Federico II. […] Coinvolto in una congiura, fu accecato e poi giustiziato, forse a San Miniato, in Toscana. Dante autore accetta sia la tesi che Pier della Vigna fosse caduto vittima di un complotto sia la leggenda che si fosse suicidato». (Marco Santagata)

 

Citazioni colonna di destra

ARPIE

«Le Arpie certamente raffigurano la violenza del suicida contro sé, e insieme il disperato tormento che non potrà mai lasciarlo. La loro “bruttura” allude all’orrore di quella colpa, come il disumano bosco velenoso.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

PIER DELLA VIGNA

«Si rivela per un uomo di corte di fine cortesia, abile retore e soprattutto funzionario fedele. La grandezza di Pier delle Vigne emerge proprio dalla dialettica “invidia – innocenza”, dove il primo termine designa la caratteristica specifica della civiltà cortese e feudale basata sul rapporto personale signore – vassallo. […] I limiti di Piero sono i limiti di Dante nel senso che entrambi hanno avuto lo stesso destino di invidia – innocenza. Da ciò la pietà e lo smarrimento di Dante per la tragica vicenda e l’atroce pena di Piero, di quel Piero che Dante autore condanna senza appello. La grandezza di Piero sta nella sua fede di cortigiano: questo è anche il suo limite.» (Gianfranco Bondioni)

 

«L’uomo – pianta Piero viene descritto come un corpo vegetale che è capace di manifestazioni esteriori fisiologiche ed in cui la coscienza umana sopravvive in tuta la sua pienezza: questa creazione ibrida di dante è più mostruosamente ibrida di tutto quanto si possa trovare nell’antichità.» (Leo Spitzer)

 

«[…] Spinsi il grilletto … nero … luce … / rimorso indicibile … brancicai per tornare nel mondo. / Troppo tardi! E così venni qua, / con polmoni anelanti … ma i polmoni non servono, / benché si debba respirare anche qui … / A che serve liberarsi del mondo, / quando nessuno può scampare al fato eterno della vita?» (Edgar Lee Master, Harold Arnett- Antologia di Spoon River)

 

«Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Miché / tutte le volte che un gallo / sento cantar penserò / a quella notte in prigione / quando Miché s’impiccò […] Domani alle tre / nella fossa comune cadrà / senza il prete e la messa perché d’un suicida / non hanno pietà.» (Fabrizio De Andrè, La ballata del Miché)

 

INFERNO, Canto XIII

 

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.    3

 

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.    6

 

Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.    9

 

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.    12

 

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.    15

 

E ’l buon maestro “Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone”,
mi cominciò a dire, “e sarai mentre    18

 

che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone”.    21

 

Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.    24

 

Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.    27

 

Però disse ’l maestro: “Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’ hai si faran tutti monchi”.    30

 

Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”.    33

 

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?    36

 

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi”.    39

 

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,    42

 

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.    45

 

“S’elli avesse potuto creder prima”,
rispuose ’l savio mio, “anima lesa,
ciò c’ ha veduto pur con la mia rima,    48

 

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.    51

 

Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece”.    54

 

E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi
.    57

 

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,    60

 

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.    63

 

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,    66

 

infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.    69

 

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.    72

 

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.    75

 

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede”.    78

 

Un poco attese, e poi “Da ch’el si tace”,
disse ’l poeta a me, “non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace”.    81

 

Ond’ïo a lui: “Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora”.    84

 

Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia    87

 

di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega”.    90

 

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
“Brievemente sarà risposto a voi.    93

 

Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.    96

 

Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.    99

 

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.    102

 

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.    105

 

Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta”.    108

 

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,    111

 

similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.    114

 

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.    117

 

Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”.
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte    120

 

le gambe tue a le giostre dal Toppo!”.
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.    123

 

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch’uscisser di catena.    126

 

In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.    129

 

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.    132

 

“O Iacopo”, dicea, “da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?”.    135

 

Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo,
disse: “Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?”.    138

 

Ed elli a noi: “O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ ha le mie fronde sì da me disgiunte,    141

 

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
mutò ’l primo padrone; ond’ei per questo    144

 

sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,    147

 

que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.    150

 

Io fei gibetto a me de le mie case”.

Citazioni colonna di sinistra

CAPANEO 

«[…] durante l’assedio condotto da sette re alla città di Tebe […] il bestemmiatore Capaneo salì da solo sulle mura nemiche e da lì sfidò Giove a incenerirlo. Il dio, allora, lo fulminò, ma, sebbene colpito, Capaneo restò in piedi e, morendo, con lo sguardo continuò a sfidare la divinità.» (Marco Santagata)

 

«Ma basta parlare di armi e trombe di guerra e ferro e feriti! Ora devo far salire Capaneo fin lassù, faccia a faccia col cielo carico di stelle. […] Tosto con sguardo truce misura l’altezza delle mura, vi porta una scala, […] se ne fa un agevole strumento per salire. Tutti lo vedono con terrore, anche da lontano, ed egli vibra una gran torcia dalle punte ardenti; […] egli grida: “[…] Vado a vedere se i sacrifici voluti dalla religione sono di aiuto o se invece mente Apollo!” Mentre parla, gradino dopo gradino, conquista, scalandole trionfalmente, le mura […] la voce di Capaneo si ode rimbombare fin lassù, in mezzo alle stelle: “Non c’è nessun dio che prenda le difese di Tebe terrorizzata? Dove sono i vili figli di questa terra nefanda, Bacco ed Ercole? Ma mi vergogno di stuzzicare gli dei minori. Vieni tu, piuttosto, Giove: chi mai più di te sarebbe giusto che mi affrontasse?” […] Mentre pronuncia queste parole il fulmine, cui Giove ha impresso tutta la sua forza, lo colpisce: volano in aria per prime le piume del cimiero, si stacca carbonizzato l’umbone dello scudo, e tutte le membra dell’eroe diventano incandescenti. […] Eppure l’eroe continua a mantenersi ritto, rantolando rivolto al cielo e appoggiando il petto fumante contro le odiate mura: e non cadrebbe, ma il suo corpo terreno lo abbandona e l’animo se ne sveste; se le sue membra avessero resistito ancora un po’ avrebbe potuto attendersi l’onore di un altro fulmine.» (Stazio, Tebaide)

 

IL VEGLIO

«Tu stavi osservando, o re, ed ecco una statua, una statua enorme, di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto.  Aveva la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta.» (Daniele II 31 – 33)

 

«I metalli che formano le varie parti della statua rappresentano le varie parti della civiltà umana. […] L’età dell’oro (la testa), poi l’età argentea, del rame, del ferro, fino alla presente (il piede sul quale poggia la statua) che è di terracotta, come la più vile di tutte. […] Ogni parte della statua è spaccata da una fenditura, che versa lacrime: essa rappresenta la ferita prodotta nell’umanità dal peccato originale, che manca infatti nella parte d’oro, l’età saturnia dell’innocenza o – cristianamente – dell’Eden. Da tale ferita nascono tutti i mali dell’uomo, e quindi le sue lacrime.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

Citazioni colonna di destra

CAPANEO

«Quel giacente affocato tra i Violenti contro Dio, cade in eguale atteggiamento nell’epopea tebaica, fulminato da Giove sotto le mura di Tebe: quella sfida che egli lancia tuttavia contro Dio dall’inferno, risonò giù sulle sue labbra nel campo degli Argivi assedianti; la persona gigantesca attribuitagli, secondo la tradizione, dal Poeta latino, è in una parola di Dante: quel grande. […] Una specie d’orgoglioso, iracondo, irreligioso, “ciclope”; gigantesco capitano, con armatura d’inverosimili proporzioni, che “sovrasta del capo e delle spalle tutto l’esercito”; che nella ruinosa scalata alle mura di Tebe, di lassù, “con la gigante ombra atterrisce la città”.» (Isidoro Del Lungo, Canto decimoquarto)

 

«Son Capaneo / chiamami Cappone come i miei amici / Dici proprio quello che penso io / […] Le tue parole / possono essere utili ed edificanti per tutti / Parla ancora / Segretaria / registri / Parla / Perché non dici nulla / Ripeto io le parole di Dante / Io Dante vedo qui in questa città / la città della pace / Elogio il fatto che qui si viva bene / solo qui ognuno può dedicarsi indisturbato al proprio lavoro / solo qui ognuno può pascersi alla vista / dei nostri palazzi/ ricolmi d’oro […]» (Peter Weiss,  Inferno)

 

IL VEGLIO

«In questa immagine sentiamo come si forma e si aggrava la situazione umana a mano a mano che si è allontanata dalla beata incoscienza dell’età dell’oro; ora il poeta può vedere e ci mostra come la vita travolge, come nasce il dolore, come si formano i fiumi infernali: dall’errore e dal pianto umano. […] Il Veglio viene da Oriente, da Damiata in Egitto, dove per l’Occidente è iniziata la civiltà, e guarda verso Roma. C’è un particolare in questa immagine dantesca; il piede destro del Veglio è di terracotta, a significare che il senso religioso dell’uomo appoggia sull’argilla. È un falso sostegno che non regge, perché rischia di sgretolarsi (la Chiesa di allora, il senso religioso di ciascun uomo). Il piede sinistro dell’azione è di ferro: è forte, ma su quello il Veglio non si appoggia; non c’è l’Impero, o comunque l’imperium: manca un’azione derivante dall’ascoltazione del sacro; l’azione umana è disorganizzata.» (Adriana Mazzarella)

 

«Il veglio rappresenta le fasi successive e degenerative della storia umana, che culminano nella separazione tra Chiesa e Impero rappresentate dai piedi di ferro e di terracotta e le sue lacrime penetrano nel terreno e scorrono sotto terra fino a creare il sistema dei fiumi dell’inferno. Quando le lacrime raggiungono l’inferno, formano un fiume diviso in quattro bracci. Il primo è l’Acheronte […] il secondo è lo Stige. […] Il terzo è il Flegetonte, il fiume rosso che scorre all’interno del settimo cerchio, e nel quale sono immersi i violenti contro gli altri; lo si può guadare. Il quarto è il Cocito, che forma la palude ghiacciata nel punto più basso dell’inferno nel quale sono immersi i traditori.» (Alison Morgan, Dante e l’aldilà medievale)

 

INFERNO, Canto XIV

 

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende’ le a colui, ch’era già fioco.    3

 

Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.    6

 

A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.    9

 

La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.    12

 

Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.    15

 

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!    18

 

D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.    21

 

Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.    24

 

Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.    27

 

Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.    30

 

Quali Alessandro in quelle parti calde
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,    33

 

per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo:    36

 

tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.    39

 

Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.    42

 

I’ cominciai: “Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ’ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,    45

 

chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ’l marturi?”.    48

 

E quel medesmo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto.    51

 

Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;    54

 

o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,    57

 

sì com’el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra”.    60

 

Allora il duca mio parlò di forza
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
“O Capaneo, in ciò che non s’ammorza    63

 

la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito”.    66

 

Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: “Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia    69

 

Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.    72

 

Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti”.    75

 

Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.    78

 

Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.    81

 

Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’era ’n pietra, e ’ margini dallato;
per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.    84

 

“Tra tutto l’altro ch’i’ t’ ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,    87

 

cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’è ’l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta”.    90

 

Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto
di cui largito m’avëa il disio.    93

 

“In mezzo mar siede un paese guasto”,
diss’elli allora, “che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.    96

 

Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.    99

 

Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.    102

 

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.    105

 

La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata;    108

 

da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.    111

 

Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.    114

 

Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,    117

 

infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta”.    120

 

E io a lui: “Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?”.    123

 

Ed elli a me: “Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,    126

 

non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto”.    129

 

E io ancor: “Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova”.    132

 

“In tutte tue question certo mi piaci”,
rispuose, “ma ’l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci.    135

 

Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa”.    138

 

Poi disse: “Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,    141

 

e sopra loro ogne vapor si spegne”.

Citazioni colonna di sinistra

BRUNETTO LATINI

«Nel detto anno CCLXXXXIIII morì in Firenze un valente cittadino il quale ebbe nome ser Brunetto Latini, il quale fu gran filosofo, e fue sommo maestro in rettorica, tanto in bene sapere dire come in bene dittare. […] fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto, e la Chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e d’ vizi e de’ virtù, e fu dittatore del nostro Comune. Fu mondano uomo, ma di lui avemo fatta menzione però ch’egli fue cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini e fargli scorti in bene parlare, e in saper guidare e reggere la nostra repubblica secondo la Politica.» (Villani, Nova Cronica)

 

«Brunetto Latini, notaio, uomo di cultura e politico, fu una delle più eminenti personalità fiorentine della seconda metà del Duecento e l’intellettuale più rappresentativo del partito guelfo. […] a Firenze occupò importanti cariche pubbliche.» (Marco Santagata)

 

LA SODOMIA

«[…] deliberato sopruso morale che il pederasta esercita sul ragazzo, soggiogandolo con il prestigio intellettuale, con le seduzioni del potere politico o economico e mondano, e comunque con le prospettive del losco e tiepido privilegio di appartenere a una setta.» (Vittorio Sermonti, L’inferno di Dante)

 

Citazioni colonna di destra

BRUNETTO LATINI

«Brunetto arriva con la testa al lembo della veste di Dante, e il dialogo si volge in questa situazione, penosamente simbolica della situazione morale in cui ora sono posti il maestro e il discepolo di un tempo […] Dante gli riconosce l’ispirazione, il suggerimento di quello che fu l’orientamento della sua vita dopo l’esilio, l’indirizzare cioè la sua opera di letterato e di studioso a un intento civile ed etico, al bene della humana civilitas.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Il discorso che tiene Brunetto a Dante si mantiene tutto su quel tono magnanimo, non di maestro di grammatica, ma di maestro di umanità, e si fa vigoroso e sdegnoso via via che s’inoltra nell’argomento. […] Rilievo mimico e dialogico, nobiltà di reticenza e di silenzio, sicurezza di sviluppo della figura complessa del maestro e del peccatore fanno di questo episodio una delle prove più perfette della potenza e della misura di Dante.» (Attilio Momigliano)

 

«Il buon notaio e scriba del Comune fiorentino doveva essere così, con quelle sue espressioni e que’ suoi giochi di parole e que’ suoi modi proverbiali e sentenziosi: pieno di affettuosa tenerezza, ma così naturalmente dignitoso da incutere anche in un uomo come Dante indimenticabile rispetto e venerazione; arguto e faceto, ma pur capace, ne’ momenti di maggiore commozione, di sollevarsi a una sincera e sdegnosa eloquenza. […] ogni tratto è colto con occhio sicuro dall’immediata realtà della vita, e specialmente attraggono la nostra ammirazione le prime parole dello straordinario colloquio e quelle dell’ultimo pensiero, rivolto al Tesoro, nel quale balena l’ambizione del letterato, del dotto, non senza una punta dell’ingenua vanità che non dispiace nei vecchi. Brunetto rimane come una di quelle simpatiche e venerande figure, che talvolta s’incontrano nella vita, le quali lasciano il rammarico, di non aver potuto conoscerlo meglio.» (Ernesto Giacomo Parodi)

 

«Dirsi figlio di Brunetto, cioè dell’indiscusso punto di riferimento della vita politica e amministrativa fiorentina, per Dante significa anche dichiararsene erede e con ciò indicare sé stesso, per quanto sbandito dalla città, come il vero interprete dei valori della tradizione guelfa comunale.»  (Marco Santagata)

 

«Nella risposta di Dante, che si china e con la mano a la sua faccia gli dà una carezza, c’è l’intensità della tenerezza e non della condanna, della magnanimità e non del disprezzo, della compassione e non della discriminazione.» (Mario Pigazzini, Freud va all’Inferno)

 

LA SODOMIA

«Il limite dell’amore è sempre quello di aver bisogno di un complice. Questo suo amico sapeva però che la raffinatezza del libertinaggio è quella di essere allo stesso tempo carnefice e vittima.» (Pier Paolo Pasolini, Le 120 giornate di Sodoma)

 

«Il cielo taceva. E Törless sentì d’essere perfettamente solo sotto quella volta immobile e muta, un punto minuscolo e vivo, sotto un immenso cadavere trasparente.» (Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless)

 

INFERNO, Canto XV

 

Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.    3

 

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;    6

 

e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:    9

 

a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.    12

 

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,
perch’io in dietro rivolto mi fossi,    15

 

quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera    18

 

guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.    21

 

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”.    24

 

E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese    27

 

la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?“.    30

 

E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”.    33

 

I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco”.    36

 

“O figliuol”, disse, “qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia.    39

 

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni”.    42

 

Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’uom che reverente vada.    45

 

El cominciò: “Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?”.    48

 

“Là sù di sopra, in la vita serena”,
rispuos’io lui, “mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena.    51

 

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle”.    54

 

Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;    57

 

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.    60

 

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,    63

 

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.    66

 

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.    
69

 

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.    72

 

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,    75

 

in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta”.    78

 

“Se fosse tutto pieno il mio dimando”,
rispuos’io lui, “voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;    81

 

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora    84

 

m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.    87

 

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo.    90

 

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.    93

 

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra”.    96

 

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: “Bene ascolta chi la nota”.    99

 

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.    102

 

Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.    105

 

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.    108

 

Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,    111

 

colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.    114

 

Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.    117

 

Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”.    120

 

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro    123  

 

quelli che vince, non colui che perde.

Citazioni colonna di sinistra

GUERRA – ALDOBRANDI – RUSTICUCCI

«Guido Guerra […] fu uno dei capi del partito guelfo: comandò i fuoriusciti fiorentini nella battaglia di Benevento contro Manfredi (1266). […] Tegghiaio Aldobrandi […] apparteneva alla consorteria degli Adimari: guelfo, dopo la sconfitta di Montaperti andò in esilio a Lucca dove morì. […] [Jacopo Rusticucci] Fu guelfo, cavaliere e ricoprì la carica di capitano del popolo ad Arezzo (1258).»  (Marco Santagata)

 

Citazione colonna di destra

GUERRA – ALDOBRANDI – RUSTICUCCI

«Illustri rappresentanti di parte guelfa, del così detto popolo vecchio o della generazione di Montaperti, morti su per giù quando Dante nasceva, e che, per costumi civili e valore militare e per essersi variamente adoperati per quello che dante riteneva il bene di Firenze[…] sono salutati dal poeta schietti discendenti della Firenze della cerchia antica […] Da ciò la premura, l’interesse e il desiderio di parlare a questi maggiori del buon tempo fiorentino e l’affetto reverenziale che Dante mostra loro più che ad alcun altro personaggio dell’Inferno. […] Fissi soltanto al pensiero della patria, per questo sono corsi a [Dante] non appena l’han riconosciuto fiorentino, e per questo sono lì a parlargli in quella danza grottesca, quasi dimentichi del fuoco che continua a piegarli, resistendo al pianto e al lamento.» (Ferdinando Figurelli)

 

LA GENTE NOVA E I SÙBITI GUADAGNI

«La gente nova e i sùbiti guadagni, l’orgoglio e la dismisura sono i mali e le cause prime dei mali che Dante ha individuato così in Firenze come in quasi tutti gli stati d’Italia da lui percorsi con la sua sete di buon costume, di probità e di giustizia, dovunque delusa.» (Ferdinando Figurelli, Il canto XVI dell’Inferno)

 

«Il principe era depresso: “Tutto questo” pensava “non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli …; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueranno a crederci il sale della terra”.» (Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)

 

«Provò un certo fastidio nel prendere atto di tanta miseria a pochi passi dai palazzi dei più facoltosi banchieri d’Europa. La cosa gli pareva offendesse la ragione, prima di ogni senso morale: già nell’attraversare il ponte verso Oltrarno, aveva osservato alla sua sinistra, sotto i colli di san Giorgio e san Miniato, le magnifiche torri e le dimore dei Bardi, che prestavano denaro a tutti i re dell’Impero e amministravano le risorse del papa e, alla sua destra, oltre i mulini ad acqua degli opifici e il ponte di Santa Trinita, le case addossate alle case, senza intonaco, vecchie e pericolanti, scalcinate, piene di crepe.» (Francesco Fioretti, Il segreto di Dante)

 

LA CORDA

«La corda francescana rappresentava l’umiltà, la povertà, la rinuncia alle ricchezze che Francesco aveva realmente vissuto. La corda poteva anche essere un talismano per non lasciarsi cadere, ma può anche rappresentare ostentazione di virtù. […] La corda francescana è l’ultimo aspetto della persona, del voler apparire. I buoni propositi possono anche avere un significato positivo, ma è un’illusione poter reprimere solo con la volontà la propria istintualità.  […] Tutte le nostre più belle apparenze e i nostri buoni propositi: vogliamo apparire quello che non siamo, nasconderci ancora dietro la persona che ha solo apparenza di bene.» (Adriana Mazzarella)

 

INFERNO, Canto XVI

 

Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo,    3

 

quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro.    6

 

Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
“Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava”.    9

 

Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.    12

 

A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e “Or aspetta”,
disse, “a costor si vuole esser cortese.    15

 

E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta”.    18

 

Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.    21

 

Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,    24

 

così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.    27

 

E “Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi”,
cominciò l’uno, “e ’l tinto aspetto e brollo,    30

 

la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ’nferno freghi.    33

 

Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:    36

 

nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.    39

 

L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.    42

 

E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce”.    45

 

S’i’ fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto;    48

 

ma perch’io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.    51

 

Poi cominciai: “Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,    54

 

tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.    57

 

Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.    60

 

Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi”.    63

 

“Se lungamente l’anima conduca
le membra tue”, rispuose quelli ancora,
“e se la fama tua dopo te luca,    66

 

cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora;    69

 

ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole”.    72

 

“La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”.    75

 

Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’al ver si guata.    78

 

“Se l’altre volte sì poco ti costa”,
rispuoser tutti, “il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!    81

 

Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui”,    84

 

fa che di noi a la gente favelle”.
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.    87

 

Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’e’ fuoro spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi.    90

 

Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.    93

 

Come quel fiume c’ ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,    96

 

che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,    99

 

rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;    102

 

così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’acqua tinta,
sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa.    105

 

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.    108

 

Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.    111

 

Ond’ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’alto burrato.    114

 

’E’ pur convien che novità risponda’,
dicea fra me medesmo, ’al novo cenno
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.    117

 

Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!    
120

 

El disse a me: “Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra”.    123

 

Sempre a quel ver c’ ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;    
126

 

ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,    129

 

ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,    132

 

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,    135

 

che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.

Citazioni colonna di sinistra

GERIONE

«Il mostruoso Gerione […] è nello stesso tempo un demone e un simbolo della frode che dilaga in tutto il mondo e contro la quale non valgono né protezioni naturali né mura cittadine né eserciti. Nella sua figura, dante mescola alcuni elementi della mitologia classica, che faceva di Gerione un mostro a tre teste, con altri di estrazione biblica: le locuste dell’Apocalisse.» (Marco Santagata)

 

«Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: […] “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. […] Il Signore Dio disse alla donna: “Che hai fatto?”. Rispose la donna: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”.»  (Genesi, III)

 

«Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli.» (Apocalisse, 12 9)

 

«Queste cavallette avevano l’aspetto di cavalli pronti per la guerra. Sulla testa avevano corone che sembravano d’oro e il loro aspetto era come quello degli uomini. Avevano capelli, come capelli di donne, ma i loro denti erano come quelli dei leoni. Avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali come rombo di carri trainati da molti cavalli lanciati all’assalto.  Avevano code come gli scorpioni, e aculei. Nelle loro code il potere di far soffrire gli uomini per cinque mesi.» (Apocalisse, 9 7-10)

 

USURAI

«Siedono propinqui al loco scemo, cioè nel vano che si profonda verso l’ottavo cerchio, il cerchio della frode; […] se non sotto il dominio di Gerione essi sono però nella sua sfera d’influenza. È forse un’allusione alla natura del peccato di usura, che essendo per definizione violenza contro l’arte e, mediatamente, contro Dio, non ha però, come la bestemmia e la sodomia, manifestazione energica e passionata, ma assume le parvenze pacifiche e subdole della frode; non più violenza esercitata con violenza, ma violenza esercitata con frode.» (Manfredi Porena)

 

«Gli usurai siedono raggruppati sulla sabbia bollente, tentano di ripararsi l’un l’altro con le braccia dalle fiammelle di fuoco e di prendersi in braccio l’uno con l’altro al fine di alleviare il doloroso bruciore del loro fondoschiena.» (Alison Morgan)

 

MALEBOLGE

«Malebolge (borse o sacche del male) è il nome, di coniazione dantesca, dell’intero ottavo cerchio, nel quale sono puniti gli inganni compiuti nei confronti di chi si fida: è un grande anello di pietra, digradante verso il centro, suddiviso in dieci fossati (o bolge) collegati da ponti naturali, ciascuno dei quali ospita una distinta categoria di peccatori. Al centro sprofonda un pozzo sul cui fondo si trova il lago ghiacciato di Cocito.» (Marco Santagata)

 

Citazione colonna di destra

GERIONE

«Gerione è Gerione, e la sua azione non è già il frodare, ma il mirabile muoversi e discendere, lento e grave per l’aria, con le grosse e faticose membra, eppure sicuro e a suo modo agile e snello […] Chi non sente questa poesia, c’è il pericolo che non senta mai la poeticità di alcun’altra poesia.» (Benedetto Croce)

 

«Gerione è un’istanza psichica numinosa presente in ogni uomo. L’uomo è un angelo incarnato e, tra le istanze spirituali (archetipiche), contiene anche quella che si è distaccata, Lucifero; il microcosmo è un’immagine del macrocosmo. Superare Gerione è indispensabile nel cammino interiore della conoscenza di sé. Se non si riesce a farlo, si rischia di arenarsi in qualcuna delle Malebolge sottostanti, oppure si resta sul margine… […]. Se non conosciamo la nostra ombra e di quanto male essa è capace, non possiamo difenderci né da noi stessi, né dal male degli altri. Solo dopo averla conosciuta ci si renderà conto che l’essere discesi fino al fondo ci permetterà in realtà di risalire alla luce.» (Adriana Mazzarella)

 

MALEBOLGE

«Malebolge è una serie di pozzi concentrici che formano come un cannocchiale mezz’aperto. Per tutti l’Inferno c’è una mordente satira contro l’inutile, l’inquieto, tumultuoso affannarsi dell’umanità: comincia col gorgo del vento che trascina Paolo e Francesca, continua con la rappresentazione dei ruffiani spinti a frustate dai diavoli, e finisce solo all’estrema base dell’inferno nella ferma malvagità della gelata dei traditori.» (Ezra Pound)

 

INFERNO, Canto XVII

 

Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!
“.
   3

 

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d’i passeggiati marmi.    6

 

E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.    9

 

La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;    12

 

due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.    15

 

Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.    18

 

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi    21

 

lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.    24

 

Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.    27

 

Lo duca disse: “Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca”.    30

 

Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.    33

 

E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.    36

 

Quivi ’l maestro “Acciò che tutta piena
esperïenza d’esto giron porti”,
mi disse, “va, e vedi la lor mena.    39

 

Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti”.    42

 

Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.    45

 

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:    48

 

non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.    51

 

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi    54

 

che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.    57

 

E com’io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.    60

 

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.    63

 

E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: “Che fai tu in questa fossa?    66

 

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.    69

 

Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,    72

 

che recherà la tasca con tre becchi!””.
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.    75

 

E io, temendo no ’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
torna’ mi in dietro da l’anime lasse.    78

 

Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: “Or sie forte e ardito.    81

 

Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male”.    84

 

Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,    87

 

tal divenn’io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.    90

 

I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.    93

 

Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;    96

 

e disse: “Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai”.    99

 

Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,    102

 

là ’v’era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.    105

 

Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;    108

 

né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui “Mala via tieni!”,    111

 

che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.    114

 

Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.    117

 

Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.    120

 

Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio.    123

 

E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.    126

 

Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”,    129

 

discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;    132

 

così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,    135

 

si dileguò come da corda cocca.

Citazioni colonna di sinistra

RUFFIANI E SEDUTTORI

«Divisi in due colonne: una nello spazio tra il centro della bolgia e il margine esterno, procedeva in direzione contraria a quella di Dante e Virgilio, e perciò veniva loro incontro, l’altra, nella corsia interna, camminava nella loro stessa direzione, ma più velocemente.» (Marco Santagata)

 

VENEDICO DEI CACCIANEMICI

«Di antica famiglia nobiliare di Bologna, fu un importante uomo politico della seconda metà del Duecento. (…) Che Venedico avesse prostituito la sorella al marchese di Ferrara Obizzo II (…) è attestato solo da Dante, evidentemente sulla base di dicerie correnti.» (Marco Santagata)

 

GIASONE

«L’eroe mitico Giasone, con cinquanta compagni detti Argonauti […] compì una spedizione nella Colchide per recuperare la pelliccia dorata di un montone là conservata come sacra reliquia. […] a Lemno […] convisse per due anni con la regina Isifile, che poi abbandonò, gravida di due gemelli […]. Nella Colchide superò difficilissime prove grazie ai poteri magici di Medea, figlia del re di Eeta, che si era innamorata di lui. Con il suo aiuto si impossessò del vello dorato e fuggì insieme a lei a Corinto, dove però l’abbandonò per sposare Creusa, figlia del re Creonte. Medea si vendicò uccidendo i due figli avuti da Giasone.» (Marco Santagata)

 

«Già i Minii […] dopo molte fatiche, quelli finalmente, sotto la guida dell’illustre Giasone, avevano toccato le acque impetuose del limaccioso fasi; e quando, presentatisi ar re Eeta, chiedono il vello di Frisso, viene loro imposta una gran mole di pericolose fatiche […]» (Ovidio, Metamorfosi)

 

«[…] Giuro sulle ceneri e sulle furie dei miei che non fu per mia iniziativa o per colpa mia che io mi indussi al matrimonio con uno straniero; gli dei ben lo sanno, anche se Giasone sa essere suadente con le vergini inesperte, per indurle a legarsi a lui! Altre sono le leggi del Fasi insanguinato, altri amori voi fate nascere, o Colchi!» (Stazio, Tebaide)

 

LUSINGATORI

«Nel fondo di questa stanno i lusingatori che si dolgono e si percuotono, tuffati in uno sterco simile all’umano, simbolo dell’abbietto servilismo al quale costoro in vita si abbandonarono.» (Giovanni Andrea Scartazzini)

 

TAIDE

«La prostituta Taide è un personaggio di una commedia di Terenzio, ma qui Dante autore si rifà, equivocando, a un passo del De Amicitia di Cicerone: mentre nella commedia […] è l’amante che chiede al parassita che aveva eseguito la commissione se Taide gliene fosse grata, dal testo ciceroniano sembra che la richiesta sia rivolta dall’amante a Taide stessa.» (Marco Santagata)

 

«Insomma la virtù è amante di sé stessa; […] però, non parlo della virtù, ma della parvenza di virtù. […] molti vogliono non tanto esser forniti della reale virtù, quanto sembrare. A costoro fa piacere l’adulazione, e quando ad essi viene rivolto un discorso conforme alla loro volontà, pensano che tale vuoto discorso sia un attestato dei propri meriti. Non vi è dunque nessuna amicizia, quando l’uno non vuole udire la verità e l’altro è pronto a mentire. E non ci sembrerebbe spiritosa l’adulazione dei parassiti nelle commedie, se non vi fossero i soldati fanfaroni / “Davvero Taide mi manda grandi ringraziamenti?”. / Era sufficiente rispondere: “Grandi”. Dice: “Immensi”. L’adulatore sempre accresce la cosa che colui, secondo la cui volontà è detta, vuole già che sia grande.» (Cicerone, L’amicizia)

 

«E cos’è, Taide mi ringrazia molto? / Moltissimo. / Cosa dici, è contenta’ / Non tanto del regalo, quanto perché glielo hai fatto tu: questo la rende proprio felice. […]» (Terenzio, Eunuco)

 

Citazioni colonna di destra

GIASONE

«La condanna di Giasone come seduttore è […] assai ferma. Tuttavia […] il poeta sottolinea la nobiltà dell’atteggiamento. […] [Giasone] non scappa dinanzi ai diavoli, come gli altri seduttori: l’aspetto reale, da magnanimo, da lui mantenuto nell’Inferno, esclude […] ogni fretta. […] c’è l’ardimento di chi per primo osò solcare il mare, un’impresa effettivamente magnanima, che il poeta ricorda a proposito della difficile navigazione sua sull’acqua, che già mai non si corse, della descrizione del Paradiso e nel momento culminante di essa, quando ci dice d’esser penetrato nelle più alte verità religiose. Non poteva dimenticare quell’impresa, che dunque per due volte paragona alla sua, neppure qui, anche se deve presentarci l’altro aspetto che di Giasone il mito aveva tramandato, quello del seduttore.» (Umberto Bosco)

 

«Il ritrovamento è il primo Atto / Il secondo, la perdita, / Terzo, la Spedizione per il Vello d’Oro / Giasone, finzione, pure.» (Emily Dickinson)

 

TAIDE

«Una meretrice greca, taide, che si muove sconciamente nell’oscurità, nel lezzo e nella sporcizia.» (Giulio Bertoni, I lenoni e gli adulatori)

 

«[…] una puttana in cui […] l’adulazione è una frode professionale; una sozza e scapigliata fante, negazione d’ogni femminilità, che si graffia con l’unghie merdose, scompostamente agitandosi.» (Umberto Bosco – Giovanni Reggio)

 

«Se la bellezza è un’ombra, il desiderio è un lampo. Che follia potrebbe essere desiderare la bellezza? Non è forse invece ragionevole che quel che passa si congiunga a quel che non dura e che il lampo divori l’ombra fuggevole?» (Anatole France, Taide)

 

INFERNO, Canto XVIII

 

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.    3

 

Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.    6

 

Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.    9

 

Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,    12

 

tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,    15

 

così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.    18

 

In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.    21

 

A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.    24

 

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,    27

 

come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,    30

 

che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.    33

 

Di qua, di là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.    36

 

Ahi come facean lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.    39

 

Mentr’io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
“Già di veder costui non son digiuno”.    42

 

Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ’l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch’alquanto in dietro gissi.    45

 

E quel frustato celar si credette
bassando ’l viso; ma poco li valse,
ch’io dissi: “O tu che l’occhio a terra gette,    48

 

se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?”.    51

 

Ed elli a me: “Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.    54

 

I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.    57

 

E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese    60

 

a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno”.    63

 

Così parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: “Via,
ruffian! qui non son femmine da conio”.    66

 

I’ mi raggiunsi con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
là ’v’uno scoglio de la ripa uscia.    69

 

Assai leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo.    72

 

Quando noi fummo là dov’el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: “Attienti, e fa che feggia    75

 

lo viso in te di quest’altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati”.    78

 

Del vecchio ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l’altra banda,
e che la ferza similmente scaccia.    81

 

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: “Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:    84

 

quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.    87

 

Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.    90

 

Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.    93

 

Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.    96

 

Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che ’n sé assanna”.    99

 

Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,
e fa di quello ad un altr’arco spalle.    102

 

Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.    105

 

Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.    108

 

Lo fondo è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.    111

 

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.    114

 

E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s’era laico o cherco.    117

 

Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?”.
E io a lui: “Perché, se ben ricordo,    120

 

già t’ ho veduto coi capelli asciutti,
e se’ Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti”.    123

 

Ed elli allor, battendosi la zucca:
“Qua giù m’ hanno sommerso le lusinghe
ond’io non ebbi mai la lingua stucca”.    126

 

Appresso ciò lo duca “Fa che pinghe”,
mi disse, “il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l’occhio attinghe    129

 

di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.    132

 

Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.    135

 

E quinci sian le nostre viste sazie”.

Citazioni colonna di sinistra

SIMONIACI

«Simone, vedendo che lo Spirito veniva dato con l’imposizione delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro dicendo: «Date anche a me questo potere perché, a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito Santo». Ma Pietro gli rispose: «Possa andare in rovina, tu e il tuo denaro, perché hai pensato di comprare con i soldi il dono di Dio!» (Atti degli Apostoli)

 

«Questi uomini, che ebbero sempre l’animo rivolto alle cose terrene, […] sono condannati a essere capovolti con la testa verso la terra; il fuoco sulle piante dei piedi è poi evidente e amaro contrappasso al fuoco dello Spirito che si posò sulla testa degli Apostoli nel cenacolo il giorno della Pentecoste.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

NICCOLÒ III

Giovanni Gaetano Orsini, papa Niccolò III dal 1277 al 1280. […] la simonia e il nepotismo, per cui dante lo ha per sempre infamato, furono in realtà parte essenziale della sua politica» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

Citazioni colonna di destra

NICCOLÒ III

«Un Farinata capovolto è suppergiù, non solo materialmente, ma anche moralmente Niccolò III. Le parole dell’Uberti, un’orgogliosa apologia della sua vita; quelle di Niccolò, una piagnucolosa condanna della propria. […] la rivelazione del proprio dolore gelosamente e penosamente nascosta o cercata di nascondere [da parte degli altri peccatori] trova in Niccolò III il corso più libero e incomposto. La dipintura dell’uomo piccolo, debole e meschino […] Tutto [nelle sue parole] è basso e piccolo. […] Una sola cosa è grande; il manto papale, il gran manto; e tanto più piccolo nel appare quel tristo e nudo spirito che ne è uscito dopo averlo portato così inadeguatamente.» (Manfredi Porena)

 

INFERNO, Canto XIX

 

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci    3

 

per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.    6

 

Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.   9

 

O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!    
12

 

Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.    15

 

Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;    18

 

l’un de li quali, ancor non è molt’anni,
rupp’io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.    21

 

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.    24

 

Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.    27

 

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.    30

 

“Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti”,
diss’io, “e cui più roggia fiamma succia?”.    33

 

Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti”.    36

 

E io: “Tanto m’è bel, quanto a te piace:
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace”.    
39

 

Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.    42

 

Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.    45

 

“O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa”,
comincia’ io a dir, “se puoi, fa motto”.    48

 

Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.    51

 

Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.    54

 

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?”.    57

 

Tal mi fec’io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.    60

 

Allor Virgilio disse: “Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi””;
e io rispuosi come a me fu imposto.    63

 

Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: “Dunque che a me richiedi?    66

 

Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;    69

 

e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.    72

 

Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.    75

 

Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.    78

 

Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:    81

 

ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.    84

 

Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge”.    87

 

Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
“Deh, or mi dì: quanto tesoro volle    90

 

Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.    93

 

Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.    96

 

Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.    99

 

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,    102

 

io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.    105

 

Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;    108

 

quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.    111

 

Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?    114

 

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!”.    117

 

E mentr’io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.    120

 

I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.    123

 

Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.    126

 

Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.    129

 

Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.    132

 

Indi un altro vallon mi fu scoperto.

Citazioni colonna di sinistra

INDOVINI

ANFIARAO

«Davanti a tutti si leva alto sul suo carro Anfiarao i cui cavalli già temono il terreno e sollevano nugoli di polvere dal suolo indignato […]» (Stazio, Tebaide)

 

«È Anfirao, uno dei sette re dell’assedio di Tebe, che davanti agli occhi dell’esercito nemico fu inghiottito da una voragine apertasi ai suoi piedi, e precipitò così tutto armato davanti a Minosse. Avendo previsto, per la sua arte divinatoria, la propria morte a Tebe, aveva tentato di nascondersi per non partire, ma tradito dalla moglie Erifile era stato costretto a recarsi in guerra. Chiaro esempio di come conoscere il futuro non sia di vantaggio agli uomini, che non possono cambiare il giudizio divino.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

TIRESIA

«[Giunone] dice no: si stabilì di chiedere il parere del dotto Tiresia: egli aveva provato il piacere di ambo i sessi. Infatti, avendo percosso con un bastone in una verde selva i corpi accoppiati di due grandi serpenti e per questo da maschio divenuto donna, meraviglia!, era così vissuto per sette anni. Nell’ottavo […] dopo averli percossi, ritornò la costituzione di prima con il sembiante che aveva dalla nascita.» (Ovidio, Metamorfosi)

 

«[…] partecipò alla guerra tebana. […] punito con la trasformazione in donna per aver bastonato due serpenti durante l’accoppiamento, dopo sette anni, avendo nuovamente percosso gli stessi due serpenti, riacquistò il suo sesso originario. In virtù di questa sua esperienza, fu chiamato a redimere una controversia fra Giove e Giunone su quale dei due sessi provasse maggior piacere nell’amore: schieratosi con Giove, che riteneva fosse quello femminile, per vendetta fu accecato da Giunone, ma risarcito da Giove con il dono della preveggenza.» (Marco Santagata)

 

ARUNTE

«A motivo di tutti questi avvenimenti si decretò di far intervenire, secondo l’antica consuetudine, gli aruspici etruschi. Il più vecchio di essi, Arrunte, che abitava le mura di Lucca deserta, esperto nell’interpretare i movimenti della folgore e le calde vene delle fibre e i presagi degli uccelli erranti nell’aria, ordina per prima cosa di eliminare i parti mostruosi […]» (Lucano, La guerra civile)

 

«[…] indovino etrusco che, stando alla Farsaglia di Lucano, avrebbe predetto la guerra civile tra Cesare e Pompeo.» (Marco Santagata)

 

MANTO

«[…] giunse una vecchia incanutita con molle piuma, / lasciando la terra, e seguendo con la voce le stelle. / […] E Ocno muove una schiera dalle spiagge patrie, / figlie di Manto fatidica e del fiume etrusco, / lui che a te diede, o Mantova, mura e nome della madre, / Mantova ricca d’avi […]» (Virgilio, Eneide)

 

«Allora la vergine Manto raccoglie nelle tazze il sangue e ne liba e dopo aver fatto per tre volte al giorno il giro completo di tutte le pire, come il venerando suo padre ha insegnato, vi depone le fibre e le viscere ancor palpitanti; poi si affretta ad attaccare alle nere fronde la fiamma delle fauci che tosto divampa.» (Stazio, Tebaide)

 

«La leggenda narra che dopo la morte di Tiresia, instauratasi in Tebe la tirannia di Creonte, Manto lasciò la città e andò peregrinando per molti paesi, finché venne a fermarsi nel luogo dove poi sorse Mantova.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

EURIPILO

«Incerti mandiamo a Euripilo a consultare l’oracolo di Febo, / ed egli riporta dal santuario questi tristi responsi […]» (Virgilio, Eneide)

 

«[…] personaggio dell’Eneide […] Dai versi di Virgilio non risulta in realtà che egli fosse un augure e tanto meno che avesse dato il punto per la partenza dei Greci per Troia. […] Evidentemente Dante interpretò liberamente il passo, intendendo che Euripilo avesse suggerito insieme a calcante il sacrificio di Ifigenia, e presieduto così alla partenza della flotta.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

Citazione colonna di destra

INDOVINI

TIRESIA

«Chiamatemi Tiresia. Per dirla alla maniera dello scrittore Melville, quello di Moby Dick. Oppure Tiresia sono, per dirla alla maniera di qualcun altro. Zeus mi diede la possibilità di vivere sette esistenze e questa è una delle sette. Non posso dirvi quale. […] A me adolescente piaceva fare lunghe passeggiate solitarie sul Citerone e un giorno, all’improvviso, mentre stavo seduto su una pietra, vidi avventarsi verso di me due grandi serpi, avviticchiate nell’atto della riproduzione. […] Così, senza pensarci, presi un ramo d’albero e con una violenta bastonata uccisi una delle due serpi. Era la femmina. E in quell’attimo stesso venni mutato in donna. Diventare donna non significa solo perdere gli attributi maschili e ricevere in cambio quelli femminili, è qualcosa di più sconvolgente. Vale a dire ricevere un cervello di donna. E questo mi atterrì. Meglio non conoscere a fondo i pensieri che possono agitare la mente di una donna. Un cervello affollatissimo: piccole esigenze quotidiane convivono a grandi quesiti universali, un flusso continuo di cose da fare e altre da pensare. Tutto questo sempre in contemporanea, senza requie, senza riposo. Un inferno!» (Andrea Camilleri, Conversazione su Tiresia)

 

ARUNTE

«Dante immagina che l’indovino abitasse una grotta delle montagne, di dove poter scrutare liberamente i segni del cielo e del mare.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

INFERNO, Canto XX

 

Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.    3

 

Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;    6

 

e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.    9

 

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,    12

 

ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.    15

 

Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.    18

 

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’io potea tener lo viso asciutto
,  
 21

 

quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.    24

 

Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?    27

 

Qui vive la pietà quand’è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?    30

 

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,    33

 

Anfïarao? perché lasci la guerra?”.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.    36

 

Mira c’ ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.    
39

 

Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;    42

 

e prima, poi, ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.    45

 

Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,    48

 

ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ’l mar non li era la veduta tronca.    51

 

E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,    54

 

Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’ io;
onde un poco mi piace che m’ascolte.    57

 

Poscia che ’l padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.    60

 

Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ ha nome Benaco.    
63

 

Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna.    66

 

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
pastore e quel di Brescia e ’l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.    69

 

Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.    72

 

Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.    75

 

Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.    78

 

Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama.    81

 

Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.    84

 

Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.    87

 

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.    90

 

Fer la città sovra quell’ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’altra sorte.    93

 

Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.    96

 

Però t’assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi”.    99

 

E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.    
102

 

Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede”.    105

 

Allor mi disse: “Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,    108

 

sì ch’a pena rimaser per le cune –
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.    111

 

Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.    114

 

Quell’altro che ne’ fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ’l gioco.    
117

 

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.    120

 

Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.    123

 

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;    126

 

e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda”.    129

 

Sì mi parlava, e andavamo introcque.

Citazioni colonna sinistra

I BARATTIERI

«Coloro che fanno illecito commercio di cose pubbliche. […] I peccatori sono immersi in un pantano di pece vischiosa e bollente, e se appena ne escono fuori con la testa vengono subito ricacciati dentro da diavoli armati di uncini.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

MALEBRANCHE

«Alora, vedendo li demoni ch’io era così sola, con molta furia e grande rabia tuttiquanti mi furono intorno, ricordandomi tutti i miei peccati. […] Et allora me preseno con tutti quelli instrumenti de ferro; ciascuno con lo suo mi corse addosso e finalmente tutto me menuciaro in pezzi; e così dissipata e guasta, mi gittaro nel fuoco da questa casa. […] E stando ancora in tenebre e in umbra de morte, poco stando io viddi la luce de la vita che mi aveva guidato.» (La visione di Tantolo)

 

CIAMPOLO

«I commentatori antichi lo identificano con un certo Zampòlo o Ciampolo, nella forma toscana. Un’ipotesi suggestiva, ma priva di appoggi documentari, vedrebbe in lui il celebre poeta Rutebeuf (attivo nei decenni centrali del Duecento), nato in Champagne (allora appartenente al regno di Navarra) e in rapporti con il re Tebaldo II, che regnò dal 1253 al 1270.»  (Marco Santagata)

 

Citazioni colonna destra

MALEBRANCHE

«Io confesso che non so vedere tutto questo comico che altri vede in Malebolge. Non ci può essere castigo di riso dove sono pene atroci per laidissime colpe. Dove non c’è lo strazio, il raccapriccio, l’orrore, la nausea, la paura, ci sarà lo scherno, il disprezzo, il sarcasmo, non il riso che castiga della commedia. Dante non può far che Dio scherzi punendo […] È possibile che a Dante, fin da principio, nel predisporre la materia di questo canto dei barattieri, non si sia affacciata la sua condanna, il ricordo dell’indegna accusa? [Quando appaiono i diavoli,] quei nemici neri si fanno il segno, e scoppia l’oscena fanfara. Ebbene non dobbiamo credere d’aver qui una grottesca rappresentazione della condanna del poeta e del suo bando? Non sono qui rappresentati, senza parente, tutti i vari sentimenti che dovettero agitarsi nell’animo di lui allora; e soprattutto il disprezzo per l’infame accusa? Tutto di questo disprezzo è impregnato il riso, il quale è perciò grottesco e laido e sconcio: […] come l’accusa, la condanna, il bando.» (Luigi Pirandello, La commedia dei diavoli e la tragedia di Dante)

 

«Domina la scena una schiera di diavoli, esseri bizzarri, animaleschi e crudeli, i quali così nell’impegno di martirizzare i barattieri, come nel rapporto con i due visitatori, fanno spettacolo […] La comicità […] nella rapsodia dei diavoli, scaturisce certamente dal contrasto tra la gravità tremenda della legge infernale e la bizzarra, pittoresca, animalesca volgarità dei diavoli, che ne sono ministri. […] Un’immagine del diavolo che è schiettamente popolare, anziché una versione da Apocalisse o, comunque, fedele al demonismo classico […] una creazione della fantasia popolare, in cui confluiscono la paura e l’ironia: una paura con cui si prende confidenza perché l’oggetto è distante. […] con Dante il diavolo entra nella poesia a un livello che non è stato più superato.» (Antonio Pagliaro, The Devil’s Raphsody)

 

INFERNO, Canto XXI

 

Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando    3

 

restammo per veder l’altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.    6

 

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,    9

 

ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;    12

 

chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa -:    15

 

tal, non per foco ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ’nviscava la ripa d’ogne parte.    18

 

I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che ’l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.    21

 

Mentr’io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”,
mi trasse a sé del loco dov’io stava.    24

 

Allor mi volsi come l’uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,    27

 

che, per veder, non indugia ’l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.    30

 

Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero!
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
con l’ali aperte e sovra i piè leggero!    33

 

L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.    36

 

Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche    39

 

a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”.    42

 

Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.    45

 

Quel s’attuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!    48

 

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio”.    51

 

Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: “Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi”.    54

 

Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.    57

 

Lo buon maestro “Acciò che non si paia
che tu ci sia”, mi disse, “giù t’acquatta
dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;    60

 

e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
perch’altra volta fui a tal baratta”.    63

 

Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d’aver sicura fronte.    66

 

Con quel furore e con quella tempesta
ch’escono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove s’arresta,    69

 

usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt’i runcigli;
ma el gridò: “Nessun di voi sia fello!    72

 

Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l’un di voi che m’oda,
e poi d’arruncigliarmi si consigli”.    75

 

Tutti gridaron: “Vada Malacoda!”;
per ch’un si mosse – e li altri stetter fermi –
e venne a lui dicendo: “Che li approda?”.    78

 

“Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto”, disse ’l mio maestro,
“sicuro già da tutti vostri schermi,    81

 

sanza voler divino e fato destro?
Lascian’andar, ché nel cielo è voluto
ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro”.    84

 

Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
e disse a li altri: “Omai non sia feruto”.    87

 

E ’l duca mio a me: “O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi”.    90

 

Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;    93

 

così vid’ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.    96

 

I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch’era non buona    99

 

Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ’l tocchi”,
diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”.
E rispondien: “Sì, fa che gliel’accocchi”.    102

 

Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: “Posa, posa, Scarmiglione!”.    105

 

Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto.    108

 

E se l’andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.    111

 

Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.    114

 

Io mando verso là di questi miei
a riguardar s’alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei”.    117

 

“Tra’ ti avante, Alichino, e Calcabrina”,
cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.    120

 

Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.    123

 

Cercate ’ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l’altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane”.    126

 

“Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?”,
diss’io, “deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.    129

 

Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?”.    132

 

Ed elli a me: “Non vo’ che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti”.    135

 

Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;    138

 

ed elli avea del cul fatto trombetta.

 

INFERNO, Canto XXII

 

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;    3

corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;    6

quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;    9

né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.    12

Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.    15

Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa.    18

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno,    21

talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.    24

E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,    27

sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.    30

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’elli ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;    33

e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.    36

I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.    39

“O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”,
gridavan tutti insieme i maladetti.    42

E io: “Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi”.    45

Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose:
“I’ fui del regno di Navarra nato.    48

Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.    51

Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch’io rendo ragione in questo caldo”.    54

E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.    57

Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: “State in là, mentr’io lo ’nforco”.    60

E al maestro mio volse la faccia;
“Domanda”, disse, “ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia”.    63

Lo duca dunque: “Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?”. E quelli: “I’ mi partii,    66

poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!”.    69

E Libicocco “Troppo avem sofferto”,
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.    72

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.    75

Quand’elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro:    78

“Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?”.
Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita,    81

quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.    84

Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.    87

Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.    90

Omè, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna”.    93

E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: “Fatti ’n costà, malvagio uccello!”.    96

“Se voi volete vedere o udire”,
ricominciò lo spaürato appresso,
“Toschi o Lombardi, io ne farò venire;    99

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,    102

per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’io suffolerò, com’è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette”.    105

Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: “Odi malizia
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!”.    108

Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: “Malizioso son io troppo,
quand’io procuro a’ mia maggior trestizia”.    111

Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: “Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,    114

ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali”.    117

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.    120

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.    123

Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: “Tu se’ giunto!”.   126

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:    129

non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.    132

Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;    135

e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.    138

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.    141

Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali sue.    144

Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
con tutt’i raffi, e assai prestamente    147

di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.    150

E noi lasciammo lor così ’mpacciati.

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GLI IPOCRITI

«Indossavano cappe pesanti con i cappucci calati sugli occhi della stessa foggia di quelli che usano i benedettini di Cluny: ma queste all’esterno erano d’oro abbagliante e all’interno di piombo.» (Marco Santagata)

 

CAIFA

«Caifa, sommo sacerdote, nel sinedrio di Gerusalemme chiese la condanna a morte di Cristo con la motivazione che era preferibile sacrificare una singola persona piuttosto che rischiare sommosse popolari. Motivazione ipocrita perché agiva per interesse personale. Anna, suo suocero e predecessore nella carica sacerdotale, aveva condotto l’interrogatorio di Cristo.» (Marco Santagata)

 

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GLI IPOCRITI

«[…] quell’aria pesante e grigia di convento che domina su tutto, anche sulle parole che quando tendono ad elevarsi di tono subito si smorzano. Anche il grido con il quale i frati godenti si rivolgono ai due poeti [ha] solo il valore di quei suoni che rendono più assorta un’atmosfera di silenzio. […] Piuttosto che nell’invenzione delle cappe di piombo il vivo elemento poetico non sta nel giusto attuarsi del contrappasso, ma in quel senso di pena dal quale gli ipocriti non possono evadere e che Dante, mentre vede compiersi in esso la giustizia di Dio, sente in tutta la sua enorme disumanità. […] E anche l’idea tutta medievale delle cappe di piombo trova il più forte colore patetico nel pensiero che sotto quelle pesanti vesti stanno dei corpi umani a soffrire.» (Ettore Bonora)

 

CAIFA

«La nudità di Caifas non è un privilegio; tutt’altro, perché il suo corpo conosce il peso delle cappe peggio degli ipocriti stessi, se tutta la lenta processione degli incappati in eterno deve passargli sopra. […] Vera antitesi del violento Capaneo che pure giaceva “dispettoso e torto”, ma accompagnava l’atteggiamento gladiatorio del corpo con parole tracotanti, con l’affermazione superba della sua forza, col disprezzo violento per Giove.» (Ettore Bonora)

 

INFERNO, Canto XXIII

 

 

Taciti, soli, sanza compagnia
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.   3

 

Vòlt’era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov’el parlò de la rana e del topo;    6

 

ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa.    9

 

E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.    12

 

Io pensava così: ’Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.    15

 

Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.    18

 

Già mi sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand’io dissi: “Maestro, se non celi    21

 

te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ’magino sì, che già li sento”.    24

 

E quei: “S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.    27

 

Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei.    30

 

S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia”.    33

 

Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere.    36

 

Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,    39

 

che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;    42

 

e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.    45

 

Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ella più verso le pale approccia,    48

 

come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.    51

 

A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto:    54

 

ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’indi a tutti tolle.    57

 

Là giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.    60

 

Elli avean cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.    63

 

Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.    66

 

Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;    69

 

ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover d’anca.    72

 

Per ch’io al duca mio: “Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi”.    75

 

E un che ’ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: “Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca!    78

 

Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi”.
Onde ’l duca si volse e disse: “Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi”.    81

 

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
ma tardavali ’l carco e la via stretta.    84

 

Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:    87

 

“Costui par vivo a l’atto de la gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?”.    90

 

Poi disser me: “O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio”.    93

 

E io a loro: “I’ fui nato e cresciuto
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.    96

 

Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’i’ veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?”.    99

 

E l’un rispuose a me: “Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.    102

 

Frati godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi    105

 

come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo”.    108

 

Io cominciai: “O frati, i vostri mali…”;
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.    111

 

Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,    114

 

mi disse: “Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri.    117

 

Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria.    120

 

E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa”.    123

 

Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
tanto vilmente ne l’etterno essilio.    126

 

Poscia drizzò al frate cotal voce:
“Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s’a la man destra giace alcuna foce    129

 

onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d’esto fondo a dipartirci”.    132

 

Rispuose adunque: “Più che tu non speri
s’appressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt’i vallon feri,    135

 

salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia”.    138

 

Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: “Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina”.    141

 

E ’l frate: “Io udi’ già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
ch’elli è bugiardo e padre di menzogna”.    144

 

Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’io da li ’ncarcati mi parti’    147

 

dietro a le poste de le care piante.

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LADRI

«Correvano con le mani legate dietro la schiena con serpi, le quali, inoltre, spingevano la testa e la coda lungo le reni e si annodavano intorno al ventre.» (Marco Santagata)

 

«Il contrappasso è chiaro. Poiché ebbero [le mani] troppo libere e sciolte, senza lasciarsele legare né dal precetto divino, né dalle leggi umane.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«[le mani legate] perchè non se le lasciaron legare dal precetto divino ‘Non furtum facies‘, nè dalle leggi umane, ed anche perchè le tennero troppo facilmente sciolte verso la roba altrui.» (Giovanni Andrea Scartazzini)

 

VANNI FUCCI

«Giovanni, figlio illegittimo di Guelfuccio dei Lazzàri, fu un guelfo di parte nera coinvolto in violenze sia private sia politiche negli anni Ottanta e Novanta del Duecento: bandito da Pistoia nel 1295, morì poco prima del 1300. Nel 1292 aveva militato fra le truppe fiorentine durante la guerra contro Pisa, legandosi a Nino Visconti; poi aveva esercitato il mestiere di mercenario e, infine, si era messo a capo di una banda che infestava la zona tra Pistoia e Prato. Dante può averlo conosciuto in uno dei suoi soggiorni a Firenze.» (Marco Santagata)

 

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VANNI FUCCI

«[…] è l’ultima degradazione dell’uomo, l’uomo bestia. […] Vanni Fucci non è solo una bestia, ma sa di essere bestia, e non solo ne arrossisce, ma se ne vanta, se ne fa un’aureola, si mette sul piedistallo. […] Vanni Fucci è vano dei suoi vizi e dice con una certa vanità e compiacenza: sono una bestia; e si dà del mulo e chiama la sua patria una tana. Ma in Vanni Fucci oltre la bestia c’è l’uomo. […] Vanni Fucci era creduto omicida ma non ladro, e quando si trova innanzi ad un suo paesano e riconosciuto da lui e colto nella bolgia de’ ladri, l’uomo sfrontato e sfacciato si dipinge di vergogna e sente più dolore di essere colto in fallo, che d’aver perduto l’altra vita.» (Francesco De Sanctis)

 

«Vanni Fucci si confessa sanguinario, bestia e gradasso, solo per nascondere quello che più gli pesa. La qualifica di ladro, di ladro sacrilego, per di più, e cioè vile. Egli vuole apparire e perdurare nella memoria come un titano del male. Il solo pensiero che possa essere scoperto lo fa tremare appunto come un vile, quella sua vociona usa a flettere i vili, pari suoi, si spegnerà in un livido gorgogliare. […] Egli era considerato un sanguinario, un violento e questo gli stava bene. Per gli uomini della sua risma questa è una nomea ambita. Il suo cruccio spunta quando si vede che egli è un bolso, un dappoco, un sanguinario sì ma vile, un ladruncolo di oggetti da sagrestia. […] egli non è un Capaneo, né tanto meno un Farinata: questi sono giganti tutti d’un pezzo che giacciono nell’Inferno soddisfatti e truci della loro vita. Vanni Fucci è piuttosto un mortificato dalla vita.» (Aldo Vallone)

 

«La sua non è la lingua di un signore violento, né la lingua di un ladro plebeo: è la lingua di un signore che per violenza è divenuto ladro. […] Vanni Fucci si presenta, attraverso le sue proprie parole – quelle che Dante con stupendo e assoluto mimetismo gli attribuisce – come un uomo che protesta contro il mondo e le sue istituzioni, un vecchio teddy boy inferocito dalla contaminazione col mondo (linguisticamente gergale) ch’egli ha scelto.» (Pasolini, La divina mimesis)

 

INFERNO, Canto XXIV

 

In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,    3

 

quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,    6

 

lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,    9

 

ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,    12

 

veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.    15

 

Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;    18

 

ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch’io vidi prima a piè del monte.    21

 

Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.    24

 

E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver’ la cima    27

 

d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”.    30

 

Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.    33

 

E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.    36

 

Ma perché Malebolge inver’ la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta    39

 

che l’una costa surge e l’altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l’ultima pietra si scoscende.    42

 

La lena m’era del polmon sì munta
quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre,
anzi m’assisi ne la prima giunta.    45

 

“Omai convien che tu così ti spoltre”,
disse ’l maestro; “ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;    48

 

sanza la qual chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.    51

 

E però leva sù; vinci l’ambascia
con l’animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s’accascia.    54

 

Più lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia”.    57

 

Leva’ mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”.    60

 

Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.    63

 

Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.    66

 

Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso
fossi de l’arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.    69

 

Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch’io: “Maestro, fa che tu arrivi    72

 

da l’altro cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com’i’ odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro”.    75

 

“Altra risposta”, disse, “non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de’ seguir con l’opera tacendo”.    78

 

Noi discendemmo il ponte da la testa
dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:    81

 

e vidivi entro terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.    84

 

Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,    87

 

né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.    90

 

Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:    93

 

con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.    96

 

Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ’l collo a le spalle s’annoda.    99

 

Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;    102

 

e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ’n quel medesmo ritornò di butto.    105

 

Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;    108

 

erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.    111

 

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,    114

 

quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:    117

 

tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!    120

 

Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: “Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.    123

 

Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana”.    126

 

E ïo al duca: “Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci”.    129

 

E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
e di trista vergogna si dipinse;    132

 

poi disse: “Più mi duol che tu m’ hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.    135

 

Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,    138

 

e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,    141

 

apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.    144

 

Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra    147

 

sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.    150

 

E detto l’ ho perché doler ti debbia!”.

Citazioni colonna sinistra

CACO

«[…] mostro mitologico che Dante trasforma in creatura diabolica. Nell’Eneide Virgilio racconta che Caco, un predone particolarmente crudele, aveva sottratto a Ercole alcuni capi di bestiame usando lo stratagemma di trascinarli per la coda affinché le tracce non rivelassero dove li nascondeva, ma che Ercole scopertolo, lo uccise a colpi di clava.» (Marco Santagata)

 

«Qui vi fu una spelonca, nascosta in un vasto recesso, / che l’orribile aspetto del bestiale caco occupava, / inaccessibile ai raggi del sole; la terra era sempre / tiepida di strage recente, e confitte alle superbe porte / pendevano teste d’uomo pallide di sinistra putredine. / Padre di questo mostro era Vulcano: eruttando dalla bocca / i suoi neri fuochi, avanzava con vasta mole. […]» (Virgilio, Eneide)

 

SABELLO E NASIDIO

«Ecco però, innanzi agli occhi di tutti, un tipo di morte più orrenda: un piccolo sepse si attaccò alla gamba dello sventurato sabello e vi si infisse con il dente ricurvo: egli lo strappò via con la mano e lo trapassò sulla sabbia con un giavellotto. […] la pelle tutt’intorno alla ferita si allontana rompendosi e mette allo scoperto le ossa bianche: l’infezione si estende ed il corpo è ormai un’unica, enorme ferita. Le membra sguazzano nella putredine: i polpacci si dissolvono, le ginocchia sono prive di rivestimento, tutti i muscoli dei femori si sciolgono e dall’inguine cola nero marciume. La pelle che circonda il ventre si rompe e ne fuoriescono le viscere; ma non cade in terra tutto ciò che è dentro il corpo chè il tremendo veleno distrugge le membra: la persona si riduce rapidamente in una piccolissima quantità di putredine velenosa. I legami nervosi, la struttura dei fianchi, la cassa toracica, gli organi vitali più nascosti: l’infezione mette allo scoperto tutto quel che compone l’essere umano. La morte squaderna, profanandoli, tutti i meccanismi della natura: gli omeri e le forti braccia si sciolgono, colano il collo e la testa […] Ma ecco un tipo di morte diverso da quello che provoca il disfacimento del corpo. Un prestere rovente morde Nasidio, agricoltore dei campi della Marsica. Un rossore di fuoco accende il suo viso e un gonfiore, che tutto pervade, tende la sua pelle, mentre altera il suo aspetto; un’orrenda putredine […] si diffonde in tutte le membra sotto l’azione del potente veleno: Nasidio scompare ingoiato dal corpo gonfio e la corazza non riesce più a contenere il petto aumentato a dismisura […]» (Lucano, Farsaglia)

 

CADMO E ARETUSA

«Appena finì di dire [Cadmo] si stese in un lungo ventre di serpente e si sentì spuntare le squame sulla pelle indurita e vide la pelle nera variegarsi con chiazze cerulee; cade prono sul petto, mentre le gambe congiuntesi insieme a poco a poco si attorcigliano in una punta arrotondata. […] la lingua si fende in due parti [] ogni volta che si sforza di emettere qualche lamento, sibila []. La coniuge, battendosi con le mani il petto nudo esclama: “Fermati, o Cadmo, e liberati, infelice, da questa forma mostruosa! […] o dèi, perché non mutate anche me in serpente?”. Aveva finito di dire: egli lambiva il volto della moglie e si insinuava nel caro petto, come se lo conoscesse, e l’abbracciava attorcigliandosi al collo come di consueto. […] quella accarezza il collo viscido del rettile con la cresta e immediatamente diventano due rettili che serpeggiano congiungendo le spire, fin tanto che penetrarono nel folto della vicina selva.» (Ovidio, Metamorfosi)

 

INFERNO, Canto XXV

 

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”.    3

 

Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse ’Non vo’ che più diche’;    6

 

e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.    9

 

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?    
12

 

Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.    15

 

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: “Ov’è, ov’è l’acerbo?”.    18

 

Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.    21

 

Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.    24

 

Lo mio maestro disse: “Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.    27

 

Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino;    30

 

onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece”.    33

 

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,    36

 

se non quando gridar: “Chi siete voi?”;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.    39

 

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette,    42

 

dicendo: “Cianfa dove fia rimaso?”;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso.    45

 

Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.    48

 

Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.    51

 

Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia;    54

 

li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.    57

 

Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue.    60

 

Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era:    63

 

come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more.    66

 

Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: “Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno”.    69

 

Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti.    72

 

Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste.    75

 

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.    78

 

Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,    81

 

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;    84

 

e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.    87

 

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.    90

 

Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.    93

 

Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.    96

 

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio;    99

 

ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.    102

 

Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.    105

 

Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.    108

 

Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.    111

 

Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.    114

 

Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti.    117

 

Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela,    120

 

l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.    123

 

Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;    126

 

ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.    129

 

Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;    132

 

e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.    135

 

L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa.    138

 

Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: “I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’io, carpon per questo calle”.    141

 

Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.    144

 

E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,    147

 

ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;    150

 

l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

Citazioni colonna di sinistra

CONSIGLIERI FRAUDOLENTI

«Quella fiamma che arde in eterno i peccatori è figura della fiamma dell’ingegno di cui essi fecero cattivo uso.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

ULISSE E DIOMEDE

«I greci Ulisse e Diomede sono tra gli eroi più famosi della guerra di Troia: il primo celebre per l’astuzia, il secondo per il coraggio. Notissimo è lo stratagemma del cavallo di legno, al cui interno erano nascosti Ulisse e altri valorosi soldati, grazie al quale i greci riuscirono a penetrare nella città e a distruggerla. […] Ulisse e Diomede, giunti sull’isola [di Sciro] smascherarono [Achille] e lo convinsero a partire per Troia. […] La statua di Pallade Atena proteggeva la città di Troia: Ulisse e Diomede riuscirono a penetrare nella rocca dove era conservata, uccisero i guardiani e la rubarono.» (Marco Santagata)

 

«Non lontano di qui riconosce piangendo / le tende dei candidi teli di Reso, che tradite / nel primo sonno, il Titide devastava con grande strage, / cruento, e riportava gli ardenti cavalli nel campo, / prima che avessero gustato i pascoli di Troia e bevuto / allo Xanto. […]» (Virgilio, Eneide)

 

«Da quando l’empio Tidide e l’inventore di misfatti Ulisse, / accinti a strappare dal sacro tempio il fatale / Palladio, uccise le sentinelle del sommo della rocca, / rapirono la sacra effigie e con le mani insanguinate / osarono toccare le virginee bende della dea, / da allora la speranza dei Danai rifluì e si ritrasse / dileguando, infrante le forze, avversa la mente della dea.» (Virgilio, Eneide)

 

«[…] Sedizioni frodi delitti, dissolutezze e ira, le ignominie che si commettono e dentro e fuori le mura troiane. Di contro si propone Ulisse, esempio e simbolo di ciò che possono virtú e saggezza, Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti, e che sull’ampia distesa del mare, in cerca del ritorno per sé e per i suoi, subí travagli d’ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai marosi dell’avversa fortuna. Tu ricordi il canto delle Sirene e gli infusi di Circe: se mai, insieme ai suoi compagni, avesse ceduto alla voglia folle di berli, sfigurato e incosciente, sarebbe caduto in balia della volontà di una meretrice e avrebbe passato la vita come un cane randagio o un porco che sguazza nel fango. Noi non siamo che numero, nati per vivere da bruti, siamo noi i pretendenti di Penelope, quei fannulloni, noi la gioventú alla corte di Alcinoo, tutta occupata a curarsi la pelle, per cui è bene dormire sino a mezzogiorno e assopire gli affanni al suono della cetra. […]» (Orazio, Epistole)

 

INFERNO, Canto XXVI

 

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ‘nferno tuo nome si spande!    
3

 

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.    6

 

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.    9

 

E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.    12

 

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee;    15

 

e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.    18

 

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,    21

 

perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.    24

 

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,    27

 

come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:    30

 

di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.    33

 

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,    36

 

che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:    39

 

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.    42

 

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.    45

 

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso”.    48

 

“Maestro mio”, rispuos’io, “per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:    51

 

chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?”.    54

 

Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;    57

 

e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.    60

 

Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta”.    63

 

“S’ei posson dentro da quelle faville
parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,    66

 

che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!”.    69

 

Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.    72

 

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”.    75

 

Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:   78

 

“O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco    81

 

quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi”.    84

 

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;    87

 

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: “Quando    90

 

mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,    93

 

né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,    96

 

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;    99

 

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.    102

 

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.    105

 

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi    108

 

acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.    111

 

“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia    114

 

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.    117

 

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
“.
   120

 

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;    123

 

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.    126

 

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.    129

 

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo
,    132

 

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.    135

 

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.    138

 

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,    141

 

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.

Citazioni colonna sinistra

GUIDO DA MONTEFELTRO

«Guido da Montefeltro, la più importante personalità ghibellina della seconda metà del Duecento e uno dei più famosi condottieri del secolo. […] nel 1296 si fece frate francescano. La sua conversione fu presentata dal partito guelfo come una vittoria politica di Bonifacio VII. Sul rapporto di Guido con il papa è impostato l’episodio dantesco, mirato a screditare la figura del condottiero e l’affidabilità dell’uomo politico piegatosi a collaborare con il suo principale nemico.» (Marco Santagata)

 

BONIFACIO VIII

«Dal maggio 1297 Bonifacio VIII era in guerra con i Colonna, una delle più potenti famiglie romane. Era una guerra privata che il papa non aveva esitato a elevare al rango di crociata. Nei mesi successivi erano cadute tutte le fortezze dei Colonna, tranne Palestrina, dove si erano rifugiati i cardinali Pietro e Iacopo. Sappiamo che Bonifacio aveva cercato a lungo di convincere alla resa i Colonna asserragliati, anche con promesse evidentemente menzognere se nel maggio 1298, dopo la loro resa, fece evacuare la città e la rase al suolo. Non possiamo escludere che Guido da Montefeltro abbia effettivamente avuto un ruolo in questa vicenda, ma il famigerato consiglio, piuttosto deludente per la pochezza del suo contenuto, o è un’invenzione di dante o, più probabilmente, circolava in versioni orali.» (Marco Santagata)

 

Citazioni colonna destra

GUIDO DA MONTEFELTRO

«Che bramosia di sapere agita quest’anima, che paura di giungere in ritardo, se può superare e dimenticare i tormenti della sua pena terribile […] L’ardore dell’attaccamento al luogo natìo ha superato l’ardore della fiamma infernale; la tetra visione del cieco mondo si è colorata, per un istante di cieli sereni, di vasti orizzonti, di paesi ridenti. Dolce quella terra natia nel ricordo e nel rimpianto, anche seda essa l’anima ha portato là, nell’Inferno, un triste fardello di colpe.» (Alberto Chiari)

 

«Avvolto  in una fiamma si avvicina ai due viaggiatori il vecchio Montefeltro; con infinita lentezza e fatica la lingua si apre la strada tra la fiamma sibilante, pieno di timore che quelli perdano la pazienza di ascoltarlo, egli comincia a scongiurarli di rimanere e di prestare ascolto a lui, loro conterraneo: finché alla fine la domanda a cui egli mira e che lo occupa per tutto il tempo prorompe, come uno scoppio di tutto il suo essere fisico e spirituale, verso gli ascoltatori tesi ormai all’estremo: “dimmi se i Romagnoli han pace o guerra?” […] che cosa c’è di più naturale del fatto che un morto, che un tempo aveva avuto parte significativa nelle sorti della sua patria, si informi delle condizioni attuali di questa patria? […] quest’uomo duro e astuto, in cui viveva una segreta, ma non sufficiente aspirazione alla purezza […] tutta la pienezza della sua vita che rimane inespressa- lotte, strapazzi, intrighi, e i giorni della vana penitenza […]» (Erich Auerbach)

 

INFERNO, Canto XXVII

 

Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,    3

 

quand’un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.    6

 

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,    9

 

mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;    12

 

così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.    15

 

Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,    18

 

udimmo dire: “O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,    21

 

perch’io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!    24

 

Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’io mia colpa tutta reco,    27

 

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ’l giogo di che Tever si diserra”.    30

 

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: “Parla tu; questi è latino”.    33

 

E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
“O anima che se’ là giù nascosta,    36

 

Romagna tua non è, e non fu mai,
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ’n palese nessuna or vi lasciai.    39

 

Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.    42

 

La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.    45

 

E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.    48

 

Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.    51

 

E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.    
54

 

Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte”.    57

 

Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l’aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:    60

 

“S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;    63

 

ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.    66

 

Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,    69

 

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda.    72

 

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.    75

 

Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.    78

 

Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,    81

 

ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.    84

 

Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,    87

 

ché ciascun suo nimico era cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,    90

 

né sommo officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.    93

 

Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro    96

 

a guerir de la sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.   99

 

È poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.    102

 

Lo ciel poss’io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care”.    105

 

Allor mi pinser li argomenti gravi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi    108

 

di quel peccato ov’io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.    111

 

Francesco venne poi, com’io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: “Non portar; non mi far torto.    114

 

Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;    117

 

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente
“.
   120

 

Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse
tu non pensavi ch’io löico fossi!”.    123

 

A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,    126

 

disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro”.    129

 

Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto.    132

 

Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
che cuopre ’l fosso in che si paga il fio    135

 

a quei che scommettendo acquistan carco.

Citazioni colonna di sinistra

SEMINATORI DI DISCORDIA

«[…] Provocatori di discordie, coloro che divisero cioè le comunità umane, religiose o civili o familiari. […] come costoro divisero gli animi, e le comunità, così ora sono divisi, lacerati nella loro stessa carne.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«[…] io, Maometto, profeta e messaggero di Dio, guardando con attenzione vidi che i peccatori subivano nell’inferno tormenti di diverso genere. Questi fecero nascere nel mio cuore una tale pietà che per l’angoscia iniziai a sudare per tutto il corpo, poiché vidi che ad alcuni di loro erano state tagliate le labbra con delle forbici infuocate. Allora chiesi a Gabriele chi fossero. Mi rispose che erano coloro che seminano parole per portare discordia tra le genti.» (Il Libro della Scala di Maometto)

 

MAOMETTO

«[…] E poi vi fu il malvagio predicatore di nome Maometto, che fu monaco, il quale li ritrasse dalla fede e li mise nell’errore.» (Brunetto Latini, Tresor)

 

«Vedo la cristianità completamente distrutta; / non credo che abbia mai sofferto una perdita così enorme. / Quindi è logico che la gente smetta di credere in Dio, / e che noi adoriamo Maometto, / Tervagan e la sua compagnia nel loro paese, / dato che Dio e Maria Santissima vogliono / che siamo ingiustamente conquistati, / e fanno sì che i miscredenti continuino ad essere onorati.» (Austorc D’ Aorlhac)

 

CURIONE

«Il tribuno della plebe Gaio Scribonio Curione, bandito da Roma in quanto cesariano, raggiunse Cesare a Rimini e, scrive Lucano, lo convinse ad attraversare il Rubicone (49 a. C.), dando così inizio alle guerre civili.» (Marco Santagata)

 

«Essi, che si dirigono verso le insegne di Cesare, ormai in movimento e vicine, sono accompagnati dall’arrogante Curione, il quale metteva in vendita la sua abilità oratoria e che un tempo era espressione della volontà del popolo ed aveva avuto il coraggio di difendere la libertà e di mettere sullo stesso piano della plebe i potenti in armi. Quando egli scorse il condottiero, che volgeva nel suo cuore diversi pensieri, così lo apostrofò: “Finchè il tuo partito, o Cesare, trasse giovamento dalla mia voce, siamo riusciti a prolungare il tuo potere, nonostante l’opposizione del Senato, allorquando mi era possibile parlare dalla tribuna e tirare dalla tua parte i Romani ancora esitanti. Ma da quando le leggi furono messi a tacere, schiacciate dalla guerra, siamo cacciati dalla patria e sopportiamo un esilio volontario: la tua vittoria ci renderà nuovamente cittadini. Mentre il partito contrario ondeggia, non rafforzato da alcun sostegno, rompi gli indugi: a quelli che son pronti ha sempre nuociuto rimandare. […] Il genero ha stabilito di cacciare il suocero dal dominio: non puoi dividere il mondo, puoi possederlo da solo”. Quando ebbe detto queste cose, accese una grande ira in lui, già di per sé stesso pronto alla guerra, e lo infiammò così come viene eccitato dal clamore il destriero eleo, che già incalza alle porte dello steccato in cui è rinchiuso e cerca di forzarne le sbarre.» (Lucano, Farsaglia)

 

BERTRAN DE BORN

«Narrava l’antica biografia provenzale che Bertran, [uno dei più celebri trovatori del suo tempo] feudatario di Périgord e quindi suddito di Enrico II d’Inghilterra, allora duca d’Aquitania, avesse incitato il figlio primogenito del re, Enrico, detto il re giovane perché già incoronato vivente il padre, alla ribellione contro di lui.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

Citazioni colonna di destra

MAOMETTO

«Secondo la tradizione medievale dell’Occidente Maometto era […] in origine un prete cristiano, spinto allo scisma da un alto prelato (per alcuni lui stesso) deluso dalle sue aspirazioni. […] Egli appare spaccato in due, con pena maggiore di ogni altro, perché appunto aveva scisso in due la Chiesa, con la più grave ed estesa delle divisioni.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

ALÌ

«Alì compie nel suo corpo (dal mento in su) quello che manca alla spaccatura di Maometto (dal mento in giù), forse a indicare che egli fu la testa, o la mente dell’opera separatrice […] O forse come segno dell’ulteriore divisione da lui compiuta in seno all’Islam […]» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

MAOMETTO E ALÌ

«Il supplizio dantesco di Maometto e di Alì è un luogo comune in molte leggende dell’inferno musulmano. Una di esse […]: Percorrono lo spazio che separa due cerchi infernali lanciando maledizioni e levando lamenti; gli uni inciampando nei propri intestini; gli altri vomitando sangue e marciume.» (Miguel Asìn Palacios)

 

BERTRAN DE BORN

«[…] l’orripilante scena di Bertran de Born non sembra essere altro che un adattamento artistico dell’abbozzo musulmano tratteggiato in questa    descrizione del giudizio finale: L’assassinato in quel giorno porterà il suo assassino, tenendo questi in mano, sospesa per i capelli, la propria testa che verserà sangue dalla vena giugulare, e dirà: “O Signore! Domandagli perché mi ha ucciso”.» (Miguel Asìn Palacios)

 

«[…] nel Libro [della Scala] Maometto riflette sul principio del contrappasso: “Vidi allo stesso modo tutti i peccatori, che subivano differenti castighi a seconda dei loro peccati”. Può allora non essere casuale che proprio in questa nona bolgia, a chiusura del canto, Dante fa dire a Bertram del Bornio: “Così s’osserva in me lo contrappasso”.» (Maria Corti)

 

«Questa figura dolente e tragica che appare alla fine, con la più grave delle mutilazioni eppure con dignitoso e quasi solenne aspetto e biblico lamento, chiude con alta e pietosa poesia il canto delle impietose mutilazioni.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«L’immagine del tronco che porta, a guisa di lanterna, il proprio capo, è tutta francese, ma non di dannazione narra bensì del più alto esempio di martirio e di miracolo: quello di saint Denis, patrono di Parigi e santo cefaloforo, in mille luoghi rappresentato, su portali di cattedrali e venerato col proprio capo in mano, offerta e monito.» (Carlo Ossola)

 

INFERNO, Canto XXVIII

 

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?    3

Ogne lingua per certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c’ hanno a tanto comprender poco seno.    6

S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente    9

per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,    12

con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie    15

a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;    18

e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.    21

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.    24

Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.    27

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi e con le man s’aperse il petto,
dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco!    30

vedi come storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.    33

E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.    36

Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,    39

quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.    42

Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d’ire a la pena
ch’è giudicata in su le tue accuse?”.    45

“Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena”,
rispuose ’l mio maestro, “a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,    48

a me, che morto son, convien menarlo
per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
e quest’è ver così com’io ti parlo”.    51

Più fuor di cento che, quando l’udiro,
s’arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.    54

“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,    57

sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.    60

Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.    63

Un altro, che forata avea la gola
e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch’una orecchia sola,    66

ristato a riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,    69

e disse: “O tu cui colpa non condanna
e cu’ io vidi in su terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,    72

rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.    75

E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,    78

gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.    81

Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.    84

Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,    87

farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco”.    90

E io a lui: “Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara”.    93

Allor puose la mano a la mascella
d’un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: “Questi è desso, e non favella.   96

Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ’l fornito
sempre con danno l’attender sofferse”.    99

Oh quanto mi pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, ch’a dir fu così ardito!    102

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che ’l sangue facea la faccia sozza,    105

gridò: “Ricordera’ ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, ’Capo ha cosa fatta’,
che fu mal seme per la gente tosca”.    108

E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”;
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.    111

Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;    114

se non che coscïenza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
sotto l’asbergo del sentirsi pura.    
117

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;    120

e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”.    123

Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa.    126

Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,    129

che fuoro: “Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.    132

E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti.    135

Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.   138

Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.    141

Così s’osserva in me lo contrapasso”.

Citazioni colonna sinistra

FALSARI

«I falsari, divisi in quattro specie (di metalli, di monete, di persone, di parole), sono puniti con la malattia che altera e corrompe il loro aspetto fisico come essi alterarono la natura di ciò che falsificarono.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

GRIFFOLINO D’AREZZO

«Griffolino d’Arezzo, condannato al rogo per eresia o stregoneria prima del 1272. […] L’alchimia, considerata fraudolenta dalla Chiesa, era l’arte del tramutare in oro i metalli vili; labili erano i confini tra alchimia, magia ed eresia.» (Marco Santagata)

 

CAPOCCHIO

«[…] fu compagno di studi di Dante ed aveva notevole fama come falsificatore di ogni cosa volesse. […] Alcuni fra gli antichi lo fanno senese, ma la sua vivace polemica contro quel popolo, che subito raccoglie e fa come seguito alle parole di Dante, secondandolo, lo esclude decisamente.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Il fiorentino Capocchio fu bruciato sul rogo a Siena il 5 agosto 1293 con l’accusa di praticare l’alchimia. Ignoriamo dove e quando Dante possa averlo conosciuto.» (Marco Santagata)

 

Citazioni colonna destra

GRIFFOLINO D’AREZZO

«È notevole nel Griffolino dantesco il tratto dell’uomo colto e acuto che disprezza lo sciocco e la premura con cui distingue a colpa, falsa, per cui gli uomini lo condannarono, da quella reale per cui è da Dio punito.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

CAPOCCHIO

«Nessuna dignità o coscienza morale del peccato commesso, Dante ha lasciato a [costui]. Capocchio sembra quasi vantarsi della propria bravura nel contraffare la natura […] Scimmia della natura: misero vanto, e misera realtà, di un uomo a cui […] sarà riservata una impietosa uscita di scena.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

INFERNO, Canto XXIX

 

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.    3

 

Ma Virgilio mi disse: “Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l’ombre triste smozzicate?    6

 

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.    9

 

E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi”.    12

 

“Se tu avessi”, rispuos’io appresso,
“atteso a la cagion per ch’io guardava,
forse m’avresti ancor lo star dimesso”.    15

 

Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: “Dentro a quella cava    18

 

dov’io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa”.    21

 

Allor disse ’l maestro: “Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;    24

 

ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi’ ’l nominar Geri del Bello.    27

 

Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito”.    30

 

“O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor”, diss’io,
“per alcun che de l’onta sia consorte,    33

 

fece lui disdegnoso; ond’el sen gio
sanza parlarmi, sì com’ïo estimo:
e in ciò m’ ha el fatto a sé più pio”.    36

 

Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.    39

 

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,    42

 

lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’io li orecchi con le man copersi.    45

 

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali    48

 

fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre.    51

 

Noi discendemmo in su l’ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva    54

 

giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.    57

 

Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l’aere sì pien di malizia,    60

 

che li animali, infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,    63

 

si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.    66

 

Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.    69

 

Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.    72

 

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;    75

 

e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia,    78

 

come ciascun menava spesso il morso
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;    81

 

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.    84

 

“O tu che con le dita ti dismaglie”,
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
“e che fai d’esse talvolta tanaglie,    87

 

dinne s’alcun Latino è tra costoro
che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro”.    90

 

“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue”, rispuose l’un piangendo;
“ma tu chi se’ che di noi dimandasti?”.    93

 

E ’l duca disse: “I’ son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ’nferno a lui intendo”.    96

 

Allor si ruppe lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l’udiron di rimbalzo.    99

 

Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: “Dì a lor ciò che tu vuoli”;
e io incominciai, poscia ch’ei volse:    102

 

“Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli,    105

 

ditemi chi voi siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi”.    108

 

“Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”,
rispuose l’un, “mi fé mettere al foco;
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.    
111

 

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
“I’ mi saprei levar per l’aere a volo”;
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,    114

 

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.    117

 

Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece”.    120

 

E io dissi al poeta: “Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!
“.    123

 

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: “Tra’ mene Stricca
che seppe far le temperate spese,    126

 

e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca;    129

 

e tra’ ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.    132

 

Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:    135

 

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,    138

 

com’io fui di natura buona scimia”.

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GIANNI SCHICCHI

«Gianni Schicchi, su richiesta di Simone Donati, prese l’aspetto dello zio di lui Buoso, mettendosi al suo posto nel letto di morte, e fece testamento a favore di Simone, lasciando infine a sé stesso una giumenta di gran pregio; la contraffazione fu così perfetta da ingannare notaio e testimoni.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

MIRRA

«Mirra, figlia del re di Cipro, innamoratasi del padre, per soddisfare il suo desiderio si finse un’altra donna. Qui è punita non per l’incesto, ma per aver contraffatto la propria identità.» (Marco Santagata)

 

«[…] Era l’ora in cui tutto è silenzio e tra le stelle dell’Orsa Boote ruotando il timone aveva fatto girare il carro: quella si muove per il suo crimine. Fugge dal cielo la luna d’oro, nere nubi coprono le stelle facendole sparire, la notte viene privata delle sue luci; per primo tu nascondi il volto, o Icaro e tu Erigone, assunta in cielo per il casto amore verso il genitore. […] l’oscurità e la notte nera attenuano la sua vergogna, la mano sinistra stringe quella della nutrice, mentre l’altra brancolando esplora il buio cammino. Già tocca la soglia del talamo, già apre la porta, già è spinta dentro; ma le gambe le si piegano e le ginocchia le tremano, le vien meno il colore e il sangue, il coraggio l’abbandona mentre avanza; quanto più vicino è alla sua azione scellerata, più inorridisce; e si pente del suo ardire e vorrebbe poter ritornare indietro senza essere riconosciuta. Mentre così esita, la vecchia la guida per mano e l’accosta all’alto letto; nell’atto di consegnarla “Prendila – disse- o Cinira, questa è tua” e fece unire quei corpi esecrandi […]» (Ovidio, Metamorfosi)

 

MAESTRO ADAMO

«[…] monetiere al servizio dei ghibellini conti Guidi di Romena, accusato di aver falsificato il fiorino d’oro per conto dei suoi signori e arso sul rogo, forse nei pressi di Romena, nel 1281.» (Marco Santagata)

 

MOGLIE DI PUTIFARRE

«La donna è la moglie di Putifarre, eunuco del faraone, la quale, rifiutata da Giuseppe, figlio di Giacobbe, nonostante gli si fosse offerta più volte, per vendetta lo accusò di aver tentato di violentarla.» (Marco Santagata)

 

«Potifar lasciò tutto quello che aveva, nelle mani di Giuseppe; e non s’occupava più di cosa alcuna, tranne del suo proprio cibo. Or Giuseppe era di presenza avvenente e di bell’aspetto. Dopo queste cose avvenne che la moglie del signore di Giuseppe gli mise gli occhi addosso, e gli disse: “Giaciti meco”. Ma egli rifiutò e disse alla moglie del suo signore: “Ecco, il mio signore non s’informa da me di nulla ch’è nella casa, e ha messo nelle mie mani tutto quello che ha; egli stesso non è più grande di me in questa casa; e nulla mi ha divietato, tranne che te, perché sei sua moglie. Come dunque potrei io fare questo gran male e peccare contro Dio?” E bench’ella gliene parlasse ogni giorno, Giuseppe non acconsentì, né a giacersi né a stare con lei. Or avvenne che un giorno egli entrò in casa per fare il suo lavoro; e non c’era quivi alcuno della gente di casa; ed essa lo afferrò per la veste, e gli disse: “Giaciti meco”. Ma egli le lasciò in mano la veste e fuggì fuori. E quand’ella vide ch’egli le aveva lasciata la veste in mano e ch’era fuggito fuori, chiamò la gente della sua casa, e le parlò così: “Vedete, ei ci ha menato in casa un Ebreo per pigliarsi giuoco di noi; esso è venuto da me per giacersi meco, ma io ho gridato a gran voce. E com’egli ha udito ch’io alzavo la voce e gridavo, m’ha lasciato qui la sua veste, ed è fuggito fuori […]» (Genesi)

 

SINONE

«Sinone, racconta l’Eneide, si lasciò catturare dai troiani e li convinse con un falso racconto a portare dentro la città il cavallo.» (Marco Santagata)

 

«Intanto dei pastori dardanidi traevano al re / con grande clamore un giovane, / con le mani legate sul dorso, che ignoto s’era offerto / a chi veniva, per tramare proprio questo, aprire / Troia agli Achei, risoluto d’animo e pronto ad entrambe / le sorti, ordire inganni o incontrare sicura morte. / […] [Egli, deposto infine il timore, parla così:] “Ti confesserò la verità, o re, qualunque cosa accada” disse “e non negherò di essere di argolica gente; questo per primo; e se la sorte fece sventurato Sinone, / non lo farà, malvagia, anche vano e mendace” […]» (Virgilio, Eneide)

 

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MAESTRO ADAMO

«[…] l’allucinante fantasma di maestro Adamo che ha rapporti soltanto intuibili, ma non del tutto assenti, con la figura umana: grottesca deformazione dell’uomo cui si è offuscata la luce della ragione. […] nella concretezza della carne, debolissima traccia permane dell’umano; con la devastazione della “persona” trionfa tragicamente il deforme bestiale. Maestro Adamo è un falsificatore di moneta, e tale peccato è considerato come malvagia forza perturbatrice del sociale commercio, devastatrice del corpo sociale.» (Giorgio Santangelo)

 

«Altro che artigiano! Come Griffolino […] come Capocchio […] Adamo è un chierico, a qualunque sorta di operazioni addetto, e del dittatore concettoso ritiene l’eloquenza […] l’organizzazione dell’intero discorso di Adamo è quella di un umanista volto a spericolate mansioni anziché d’una rude simia della Zecca. […] vocaboli rari o unici […] euristica violenta che naturalmente contagia anche il narrato […]» (Gianfranco Contini)

INFERNO, Canto XXX

 

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,    3

 

Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,   6

 

gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ’ leoncini al varco”;
e poi distese i dispietati artigli,   9

 

prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s’annegò con l’altro carco.    12

 

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,    15

 

Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva    18

 

del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.    21

 

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,    24

 

quant’io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.    27

 

L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.    30

 

E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando”.    33

 

“Oh”, diss’io lui, “se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi”.    36

 

Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.    39

 

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l’altro che là sen va, sostenne,    42

 

per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma”.    45

 

E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.    48

 

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.    51

 

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia,    54

 

faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.    57

 

“O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo”,
diss’elli a noi, “guardate e attendete    60

 

a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.    63

 

Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,    66

 

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.    69

 

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.    72

 

Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.    75

 

Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.    78

 

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ ho le membra legate?    81

 

S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,    84

 

cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.    87

 

Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia”.    90

 

E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.    93

 

“Qui li trovai – e poi volta non dierno -“,
rispuose, “quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.    96

 

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo”.    99

 

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.    102

 

Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,    105

 

dicendo a lui: “Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto”.    108

 

Ond’ei rispuose: “Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
ma sì e più l’avei quando coniavi”.    111

 

E l’idropico: “Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ’ve del ver fosti a Troia richesto”.    114

 

“S’io dissi falso, e tu falsasti il conio”,
disse Sinon; “e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun altro demonio!”.    117

 

“Ricorditi, spergiuro, del cavallo”,
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
“e sieti reo che tutto il mondo sallo!”.    120

 

“E te sia rea la sete onde ti crepa”,
disse ’l Greco, “la lingua, e l’acqua marcia
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!”.    123

 

Allora il monetier: “Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,    126

 

tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ’nvitar molte parole”.    129

 

Ad ascoltarli er’io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: “Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!”.    132

 

Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira.    135

 

Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,    138

 

tal mi fec’io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.    141

 

Maggior difetto men vergogna lava“,
disse ’l maestro, “che ’l tuo non è stato;
però d’ogne trestizia ti disgrava.    144

 

E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:    147

 

ché voler ciò udire è bassa voglia“.

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I GIGANTI

«C’erano sulla terra i giganti a quei tempi – e anche dopo – quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi.» (Genesi, 6, 4)

 

NEMBROT

«Secondo la tradizione patristica, Nembrot, re di Babilonia, sarebbe stato il costruttore della torre di Babele, superbo tentativo di scalata al cielo punito da dio con la confusione delle lingue.» (Marco Santagata)

 

«Ora Etiopia generò Nimrod: costui cominciò a essere potente sulla terra. Egli era valente nella caccia davanti al Signore, perciò si dice: “Come Nimrod, valente cacciatore davanti al Signore”. L’inizio del suo regno fu Babele, Uruch, Accad e Calne, nel paese di Sennaar. […] Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: […]. […]: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».  Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.» (Genesi 10 – 11)

 

EFIALTE

«Efialte, uno dei più arditi nella battaglia contro Giove e nell’assalto all’Olimpo.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Qui l’antica prole della Terra, la gioventù dei Titani, / abbattuta dal fulmine, si voltò là nell’estremo fondo. / Qui vidi anche i gemelli Aloidi, immani / corpi, che tentarono di lacerare con le mani il grande / cielo, e di rovesciare Giove dai regni superni.» (Virgilio, Eneide)

 

«Io so che gli empi / titani e l’immane caterva / atterrava col fulmin caduco / ei che la terra pigra, ei che modera / il mar ventoso, le città, i flebili / abissi, e i mortali e gli Dei / regge sol con legittimo impero. / Profondo a Giove terrore incussero / quei di braccia irti fidenti giovani / e i fratelli che il Pelio a forza / por volean su l’ombrifero Olimpo […]» (Orazio, Libro III ode 4)

 

ANTEO

«È il terzo dei giganti […] figlio di Nettuno e della terra, si nutriva di carne di leone e dormiva sulla nuda terra, sua madre, dalla quale riceveva sempre nuove forze. Fu ucciso da Ercole, che riuscì a tenerlo sollevato dal suolo.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«La Terra non era ancora spossata dopo aver generato i Giganti, concepì negli antri di Libia un figlio tremendo […] Anteo […]. E per di più la Terra aggiunse un’altra dote alle forze già possenti del figlio, e cioè che le sue membra, per quanto stanche, riacquistassero novello vigore non appena avessero toccato la madre. Questo gigante aveva una spelonca per casa; si narra che si nascondesse sotto un’alta rupe, che si nutrisse di leoni dopo averli catturati e che non si servisse per dormire di pelli di fiera o di foglie, ma che riacquistasse le forze ponendosi a giacere sulla nuda terra. […]» (Lucano, Farsaglia)

 

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I GIGANTI

«Gerione e i Giganti hanno la funzione di collegare il sopra con il sotto: davanti a tanto male le forze umane non bastano più e l’uomo deve usare per i propri fini di coscienza e di salvezza anche queste creature, così come userà Lucifero per uscire dall’inferno. Ma mentre Gerione è la frode, i giganti non sono il tradimento. […] essi sono contemporaneamente dannati e custodi: sono, con le poche incomprensibili parole e gli scarsi movimenti, un intermedio poetico e strutturale fra la mobilità silenziosa e maligna di Gerione e la pura materialità statica e silenziosamente agghiacciata di Lucifero: una vita ridotta ad antivita.» (Gianfranco Bondioni)

 

«Hanno fattezze umane ma sono orribili, paurosi, immensi, torreggianti nel pozzo del male, come a coronarlo. Sono simbolo dell’elefantiasi dell’uomo persona. […] sono forze cieche che rimangono nell’uomo e nella società quando il legame di solidarietà umana è dissolto: quando è completamente rimosso il ben dell’intelletto, non rimangono altro che blocchi di masse emozionali. […] La massa amorfa dei Giganti rappresenta l’ultima perversione della creatura umana. Le passioni a lungo andare diventano vizi, abitudini inveterate che portano all’istupidimento. La massa emozionale istupidita dei Giganti precipita l’uomo nell’inferno del completo non senso, nell’ultimo tradimento; è la massima trivialità e violenza in cui decade una civiltà quando l’ordine naturale è sovvertito e ogni legame di relazione umana spento.» (Adriana Mazzarella)

 

NEMBROT

«Come il grido di Pluto, questo verso [Raphèl maì amècche zabì almi] appartiene al gusto del parlare cifrato […] proprio della retorica medievale. […] non si può che formulare un’ipotesi, senza alcuna vera certezza. Queste parole di Nembrot non appartengono a nessuna lingua nota […] L’ipotesi più probabile dunque è che Dante abbia costruito la frase su parole di fatto esistenti, ma da lui stravolte. […] la via migliore […] nell’interpretazione di questo verso [è] quella di individuare le parole della supposta lingua originaria di Nembrot – l’ebraico. […] raphaim (gigantes) man (quid hoc est?) amalech (populus lambens) zabulon (habitaculum) alma (sancta, secreta). E la traduzione è dunque pressappoco questa: “giganti! che è questo? Gente lambisce, tocca, la dimora santa”.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

INFERNO, Canto XXXI

 

Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;    3

 

così od’io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.    6

 

Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che ’l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.    9

 

Quiv’era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno,    12

 

tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.    15

 

Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.    18

 

Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond’io: “Maestro, dì, che terra è questa?”.    21

 

Ed elli a me: “Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.    24

 

Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi”.    27

 

Poi caramente mi prese per mano
e disse: “Pria che noi siam più avanti,
acciò che ’l fatto men ti paia strano,    30

 

sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l’umbilico in giuso tutti quanti”.    33

 

Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,    36

 

così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;    39

 

però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che ’l pozzo circonda    42

 

torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.    45

 

E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia.    48

 

Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.    51

 

E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene;    54

 

ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.    
57

 

La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l’altre ossa;    60

 

sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma    63

 

tre Frison s’averien dato mal vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov’omo affibbia ’l manto.    66

 

“Raphèl maì amècche zabì almi”,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.    69

 

E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ira o altra passïon ti tocca!    72

 

Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.    75

 

Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.    78

 

Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”.    81

 

Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
trovammo l’altro assai più fero e maggio.    84

 

A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro    87

 

d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.    90

 

“Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove”,
disse ’l mio duca, “ond’elli ha cotal merto.    93

 

Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a’ dèi;
le braccia ch’el menò, già mai non move”.    96

 

E io a lui: “S’esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li occhi mei”.    99

 

Ond’ei rispuose: “Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo d’ogne reo.    102

 

Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto”.    105

 

Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto.    108

 

Allor temett’io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta,
s’io non avessi viste le ritorte.    111

 

Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.    114

 

“O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
quand’Anibàl co’ suoi diede le spalle,    117

 

recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda    120

 

ch’avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.    123

 

Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.    126

 

Ancor ti può nel mondo render fama,
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama”.    129

 

Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
ond’Ercule sentì già grande stretta.    132

 

Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: “Fatti qua, sì ch’io ti prenda”;
poi fece sì ch’un fascio era elli e io.    135

 

Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada
sovr’essa sì, ched ella incontro penda:    
138

 

tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.    141

 

Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora,    144

 

e come albero in nave si levò.

Citazioni colonna sinistra

TRADITORI

«Il tradimento è il più grave dei peccati, perché è il più grave peccato contro l’amore, in quanto non rompe solo il vincolo dell’amore naturale fra gli uomini, come la frode, ma quel più stretto legame instaurato da speciali rapporti, quali la parentela, l’amicizia, la gratitudine, per cui un uomo si fida totalmente dell’altro. Chi può tradire questa fiducia […] perde la sua dignità umana. […] [Le anime popolano] questo raggelato deserto […] le teste chine […] emergono sulla superficie ghiacciata, mentre i corpi illividiti traspariscono al di sotto.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

CAMICIONE DE’ PAZZI

«[…] Uberto Camicione dei Pazzi di Valdarno, famiglia ghibellina che conduceva un’endemica guerriglia nei confronti di Firenze, morto prima del 1290: avrebbe uccisi per interesse il cugino Ubertino […]» (Marco Santagata)

 

NAPOLEONE E ALESSANDRO DEGLI ALBERTI

«[…]i fratelli napoleone e Alessandro degli Alberti, conti di Mangona [] divisi anche politicamente (ghibellino il primo, guelfo il secondo), furono in lotta perpetua per l’eredità del padre Alberto, tanto da uccidersi tra loro (ma in realtà Alessandro uccise o fece uccidere Napoleone e poi fu soppresso da un figlio di Napoleone, ucciso a sua volta da un figlio di Alessandro) […]» (Marco Santagata)

 

BOCCA DEGLI ABATI

 «[…] ghibellino di Firenze […] che […] nel corso della battaglia di Montaperti tradì passando al nemico. Il suo tradimento, tuttavia, dovette essere meno grave di quanto Dante afferma se Bocca, nel 1268, fu punito solamente con il bando.» (Marco Santagata)

 

BUOSO DA DUERA

«[…] signore di Cremona, fu nel 1265 incaricato dai ghibellini di Lombardia, e da Manfredi, di resistere presso Parma all’esercito di Carlo D’Angiò; ma corrotto con denaro lasciò passare i Francesi senza contrasto di battaglia.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

INFERNO, Canto XXXII

 

S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,    3

 

io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;    6

 

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.    9

 

Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.    12

 

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!    15

 

Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l’alto muro,    18

 

dicere udi’ mi: “Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi”.    21

 

Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.    24

 

Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,    27

 

com’era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.    30

 

E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,    33

 

livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.    36

 

Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.    39

 

Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
che ’l pel del capo avieno insieme misto.    42

 

“Ditemi, voi che sì strignete i petti”,
diss’io, “chi siete?”. E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,    45

 

li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.    48

 

Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.    51

 

E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: “Perché cotanto in noi ti specchi?    54

 

Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.    57

 

D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina:    60

 

non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
non Focaccia; non questi che m’ingombra    63

 

col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se’, ben sai omai chi fu.    66

 

E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni”.    69

 

Poscia vid’io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.    72

 

E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l’etterno rezzo;    75

 

se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi ’l piè nel viso ad una.    78

 

Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?”.    81

 

E io: “Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta”.   84

 

Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
“Qual se’ tu che così rampogni altrui?”.    87

 

“Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo”, rispuose, “altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?”.    90

 

“Vivo son io, e caro esser ti puote”,
fu mia risposta, “se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note”.    93

 

Ed elli a me: “Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!”.    96

 

Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: “El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna”.    99

 

Ond’elli a me: “Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti
se mille fiate in sul capo mi tomi”.    102

 

Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,    105

 

quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?”.    108

 

“Omai”, diss’io, “non vo’ che più favelle,
malvagio traditor; ch’a la tua onta
io porterò di te vere novelle”.    111

 

“Va via”, rispuose, “e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.    114

 

El piange qui l’argento de’ Franceschi:
“Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi”.    117

 

Se fossi domandato “Altri chi v’era?”,
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.    120

 

Gianni de’ Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia”.    123

 

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;    126

 

e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:    129

 

non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.    132

 

“O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché”, diss’io, “per tal convegno,    135

 

che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,    138

 

se quella con ch’io parlo non si secca”.

Citazioni colonna sinistra

IL CONTE UGOLINO

«Nel 1288 Ugolino della Gherardesca, signore di Pisa, fu per opera dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini e di altre potenti famiglie pisane condannato per tradimento, e chiuso nella Torre dei Gualandi, dove fu lasciato morire di fame, insieme a quattro tra suoi figli e nipoti, dopo alcuni mesi di prigione.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«[…] “Ma che qualcuno mi porti il tuo capo, o Melanippo!” […] A questa vista, Tideo si drizza, con lo sguardo va incontro al nemico e, fuori di sé per la gioia e per lo sdegno, come lo vede rantolare e stravolgere gli occhi, riconoscendo in lui la propria immagine, comanda che gli taglino la testa e gliela porgano; prende con la sinistra il capo del nemico, lo contempla ferocemente ed esulta, vedendo in quel volto ancora caldo gli occhi torvi e restii a fissarsi nella morte.» (Stazio, Tebaide)

 

FRATE ALBERIGO

«Alberigo dei Manfredi, frate godente di Faenza e capo dei Guelfi della città, nel 1285 uccise, per questioni patrimoniali, il cugino Manfredo e il figlio di lui durante un banchetto. […] Pare che il segnale convenuto per i sicari fosse la frase: “Venga la frutta!”» (Marco Santagata)

 

BRANCA DORIA

«Della nobile famiglia genovese dei Doria, tra le più influenti della città. […] Gli antichi commenti ci dicono che, aspirando a impossessarsi del Lugudoro, di cui era signore il suocero Michele Zanche, invitò quest’ultimo aa un banchetto e poi lo fece trucidare con tutto il suo seguito. […] É ipotesi che Dante lo abbia incontrato a Genova quando Arrigo VII vi sostò nel 1311, accolto dalle principali famiglie ghibelline della città.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

Citazioni colonna destra

IL CONTE UGOLINO

«I due scontano insieme, nello stesso ghiaccio, in una medesima buca, il comune tradimento verso altri; ma colui che a sua volta fu in quella congiura tradito dal complice, tradito nel tradimento, vendica sé e punisce l’altro di questo soprappiù delitto, e in una maniera spaventevole. Ugolino è laggiù come traditore: anzi c’è da più anni che l’Arcivescovo; ma sulla testa di costui, cadutogli per divino consiglio nella sua stessa buca, a portata de’ suoi denti, sfoga la vendetta sua propria e la divina vendetta. […] L’atto bestiale non concilia a Ugolino la simpatia dello spettatore; tuttavia l’adempiersi quell’atto in luogo soprannaturale, certamente col permesso di Dio, fa subito intravedere che gran torto abbia colui ricevuto, e gli concilia subito una cotal commiserazione, piena d’orrore, ma, come a dire, rassegnata all’orrore, e suscita una curiosità quasi benigna.» (Francesco D’Ovidio)

 

«Dante ha stabilito un parallelismo tra la prima e l’ultima storia del suo Inferno, simili nell’attacco e nella chiusa. Ma Francesca si induce a parlare per amore, Ugolino per odio […] quella bocca avidamente attaccata, come per fame, al cranio dell’odiato nemico si solleva; il fiero pasto, di belva feroce, s’interrompe.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Qui è l’uomo contro un altro uomo; ma l’uomo non ha più nulla di umano e neppure di animalesco: è solo odio diabolico. In quell’odio però vive in confuso delirio un grande amore di padre.» (Adriana Mazzarella)

 

«[ambo le man per lo dolor mi morsi] Gesto di impotente furore. Ogni lettore riconosce il legame che corre tra questo e il gesto che egli compie eternamente nell’inferno. Egli non sa piangere, né parlare, tanto meno confortare: è reso disumano e impotente, pur nel suo amore. Per cui non riesce che ad atterrire i figli, prima con lo sguardo, adesso con il gesto.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Dante ha voluto che pensassimo che Ugolino abbia mangiato la carne dei suoi figli? Arrischierei questa risposta: Dante ha voluto che non lo pensassimo ma che lo sospettassimo. L’incertezza è parte del suo disegno […] Nella tenebra della sua Torre della fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa oscillante imprecisione, questa incertezza è la strana materia di cui è fatto.» (Jorge Luis Borges)

 

INFERNO, Canto XXXIII

 

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.    3

 

Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.    
6

 

Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.    9

 

Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.    12

 

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.    15

 

Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;    18

 

però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso.    21

 

Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,    24

 

m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.    27

 

Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.    30

 

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.    33

 

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.    36

 

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.    39

 

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?    42

 

Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;    45

 

e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.    48

 

Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.    51

 

Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.    54

 

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,    57

 

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi    60

 

e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.    63

 

Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?    66

 

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.    69

 

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,    72

 

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.    75

 

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.    78

 

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,    81

 

muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!    84

 

Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.    87

 

Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata
e li altri due che ’l canto suso appella.    90

 

Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.    93

 

Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;    96

 

ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.    99

 

E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,    102

 

già mi parea sentire alquanto vento;
per ch’io: “Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?”.    105

 

Ond’elli a me: “Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove”.    108

 

E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: “O anime crudeli
tanto che data v’è l’ultima posta,    111

 

levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
un poco, pria che ’l pianto si raggeli”.    114

 

Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna”.    117

 

Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo”.    120

 

“Oh”, diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”.
Ed elli a me: “Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.    123

 

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.    126

 

E perché tu più volontier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade    129

 

come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.    132

 

Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.    135

 

Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso”.    138

 

“Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni”.    141

 

“Nel fosso sù”, diss’el, “de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,    144

 

che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.    147

 

Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano.    150

 

Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?    153

 

Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,    156

 

e in corpo par vivo ancor di sopra.

Citazioni colonna sinistra

LUCIFERO

«Come mai sei caduto dal cielo, / Lucifero, figlio dell’aurora? / Come mai sei stato steso a terra, / signore di popoli? / Eppure tu pensavi: / Salirò in cielo, / sulle stelle di Dio / innalzerò il trono, / dimorerò sul monte dell’assemblea, / nelle parti più remote del settentrione. / Salirò sulle regioni superiori delle nubi, / mi farò uguale all’Altissimo. / E invece sei stato precipitato negli inferi, / nelle profondità dell’abisso!» (Isaia, 14, 12-15)

 

«Dio ha creato un angelo e gli ha fatto tante dita quanti sono i condannati al fuoco; e ciascuno di essi non è tormentato se non da un dito delle dita di quell’angelo. Per Allāh [vi dico] che se quest’angelo ponesse una delle sue dita sopra il firmamento, lo fonderebbe con il suo calore!» (Țawūa al-Yamānī, hadit)

 

GIUDA ISCARIOTA

«Giuda Iscariota, l’apostolo che tradì il Cristo. […] Di lui tuttavia Dante dice solo il nome, senza alcun commento. Quasi che a tale colpa e a tale nome nulla fosse possibile aggiungere.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai sommi sacerdoti e disse: «Quanto mi volete dare perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnarlo.» (Matteo 26, 14 – 16)

 

MARCO GIUNIO BRUTO

«Marco Giunio Bruto, che partecipò alla congiura contro Giulio Cesare, e alla sua uccisione. Posto qui nella Giudecca come traditore dei benefattori, perché da Cesare beneficato e amato come un figlio.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«[…] Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: «Anche tu, figlio?», Privo di vita, mentre tutti fuggivano, rimase lì per un po’ di tempo, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva in fuori, fu portato a casa da tre servi.» (Svetonio, Vite dei Cesari)

 

CAIO CASSIO LONGINO

«Caio Cassio Longino, l’altro principale congiurato contro Cesare, anch’egli da lui beneficiato, ricordato tradizionalmente in coppia con Bruto, di cui era cognato. Ambedue morirono suicidi dopo la sconfitta a Filippi.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

Citazioni colonna destra

LUCIFERO

«[…] la più alta delle creature che osò ribellarsi a Dio, e per cui tutto l’inferno si è formato. […] Dante riprende qui l’immagine usata nel I canto per Dio stesso: ché quello imperador che là sù regna […] Lucifero ne è appunto il contrario, o meglio la contraffazione. […] Le tre facce in una sola testa, ritrovabili nell’iconografia del tempo, simboleggiano evidentemente la contraffazione della trinità divina   espressione delle tre passioni opposte alla Trinità, della quale le tre facce sono appunto il segno contrario: alla Potenza, Sapienza e Amore di Dio corrispondono impotenza, ignoranza e odio in Lucifero. Rossa dunque l’impotenza; giallastro l’odio; nera l’ignoranza.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

«Niente corna e niente coda; bensì le sei grandi ali proprie dei serafini; ma non pennute e iridiscenti, bensì sei grandi e fosche alacce di vispistrello, simili a grandi vele, due sotto a ciascuna faccia. […] personaggio colossale, mostruoso, orrendo, incarnazione di forza sovraumana, sì; ma grottesco no. E benchè tutto aggelato in Cocito, costretto a non spostarsi d’un pollice dal suo tenebroso e angusto carcere, tuttavia vivo. Piange con sei occhi, e con ognuna delle tre bocche dirompe tra i denti un peccatore: e pianto e sanguinosa bava gocciano giù per tre menti, alimentando lo stagno che tre venti, prodotti dall’agitarsi delle tre paia d’ali, congelano.» (Bruno Nardi)

 

«[…] Satana possiede anche un significato topografico: è il verme al centro esatto della mela marcia costituita dalla terra, situato nel punto più lontano possibile da Dio. Possiede anche un significato morale: il vento gelido generato dal battito delle sue ali, che soffia nel Cocito e ghiaccia il lago, rappresenta le azioni a sangue freddo dei traditori che vi sono confinati ed è nelle sue bocche traditrici che i più grandi traditori di tutti i tempi, Giuda, Bruto e Cassio, patiscono la loro pena eterna.» (Alison Morgan)

 

«[…] confesso che mi sento portato a ricevere da Dante l’impressione di un Dante differente come una qualsiasi anima umana di dannato e, d’altronde, penso che il tipo di sofferenza dello spirito del male dovrebbe essere rappresentato in modo totalmente diverso. Mi limiterò a dire che dante ha cercato di fare qui del suo meglio. Vedendo Bruto, il nobile Bruto, e Cassio riuniti a Giuda Iscariota, un lettore inglese potrà sentirsi inizialmente a disagio: per costui, infatti, Bruto e Cassio devono sempre corrispondere ai personaggi di Shakespeare. Ma […] se qualcuno si sente urtato dall’ultimo canto dell’inferno, gli chiedo di pazientare finchè avrà letto […] l’ultimo canto del paradiso, che per me è il punto più alto che la poesia abbia mai toccato o potrà mai raggiungere.» (Thomas Stearns Eliot)

 

«[…] egli è l’altra parte di Dio, in termini psicologici l’”ombra del Sé”. È un archetipo potente, ed è anche ciò che Dante si aspettava di vedere, prima o poi. […] L’incontro con Lucifero è lo scontro con l’ombra del Sé, fatta immagine. […] [Lucifero] è substanzia del male. […] se Dante non riuscisse a superare Lucifero, sarebbe un viaggio senza ritorno. […] Questo Lucifero che precipita ci dà proprio l’immagine dell’Ombra divina che cade sulla terra. […] Lucifero si ciba di Giuda, il traditore del sacro, e di Bruto e Cassio, traditori dell’impero, che per Dante è l’ordine civile.» (Adriana Mazzarella)

 

«Il Lucifero dantesco è “divino” e tricefalo: dunque è l’immagine rovesciata della Trinità superiore, è uno dei complessi più potente dell’inconscio collettivo, che l’uomo non può integrare, in quanto non pertinente all’Io, ma dal quale l’Io deve, con sacro terrore, fuggire, come fa Dante, per non esserne posseduto. Ma prima di fuggire quell’aspetto bisogna conoscerlo bene, bisogna guardarlo e oggettivarlo, per quanto è possibile, onde poterlo usare come forza al servizio dell’essere-totalità.» (Adriana Mazzarella)

 

«Senza un cambiamento dell’atteggiamento mentale non si può procedere, perché Lucifero sbarra la strada. In tutte le tradizioni iniziatiche, questo passaggio è chiamato metanoia, […] cioè cambiamento d’intelletto o conversione o […] riunione, concentrazione di tutte le forze dell’essere e del capovolgimento. È una trasformazione interiore mediante la quale si passa dall’illusione umana di essere al centro del cosmo all’intuizione di una realtà che trascende questa centralità illusoria. È come uscire dall’orbita dell’io, sfuggendogli nel punto di maggiore attrazione (il centro) per entrare nell’orbita del Sé. […] la metanoia è una fase necessaria in qualsiasi processo di sviluppo spirituale; è un fatto di ordine puramente interiore, una esperienza che non ha niente a che vedere con il pentimento.» (Adriana Mazzarella) 

 

«Da un punto di vista alchemico è finita la nigredo. È stata trovata la pietra nera, dalla quale, con le opportune trasformazioni, si potrà ottenere la pietra filosofale. La nigredo ha lasciato un segno anche sulle guance di Dante, che si sono completamente annerite nel passaggio attraverso l’inferno e che verranno purificate col battesimo sulla spiaggia del Purgatorio.» (Adriana Mazzarella)

 

«Come sia riuscito tornare a casa nessuno lo sa / O come sia sopravvissuto a tanti colpi / Sono stato attraverso l’Inferno, che buon pro abbia portato, / la mia coscienza è chiara, la tua invece? / Ti farò giustizia, ti riempirò le tasche / Ma mostrami prima i tuoi principi morali.» (Bob Dylan, Pay in Blood)

 

PER CONCLUDERE

«La notte ricomincia: è quella del Sabato Santo. Sono passate ventiquattr’ore dall’inizio del viaggio. […] null’altro resta ormai da vedere: ché tutto avem veduto. Verso definitivo che dà l’avvio al nuovo cammino, dalla notte verso il chiaro mondo dei vivi.» (Anna Maria Chiavacci Leonardi)

 

INFERNO, Canto XXXIV

 

“Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira”,
disse ’l maestro mio, “se tu ’l discerni”.    3

 

Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che ’l vento gira,    6

 

veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.    9

 

Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.    12

 

Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.    15

 

Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,    18

 

d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
“Ecco Dite”, dicendo, “ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t’armi”.    21

 

Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.    24

 

Io non mori’ e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’ hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.    
27

 

Lo ’mperador del doloroso regno
da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,    30

 

che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.    33

 

S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.    36

 

Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;    39

 

l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:    42

 

e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.    45

 

Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.    48

 

Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:    51

 

quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.    54

 

Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.    57

 

A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.    60

 

“Quell’anima là sù c’ ha maggior pena”,
disse ’l maestro, “è Giuda Scarïotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.    63

 

De li altri due c’ hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;    66

 

e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto”.    69

 

Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai,    72

 

appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ’l folto pelo e le gelate croste.    75

 

Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,    78

 

volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.    81

 

“Attienti ben, ché per cotali scale”,
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
“conviensi dipartir da tanto male”.    84

 

Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.    87

 

Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;    90

 

e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato.    93

 

“Lèvati sù”, disse ’l maestro, “in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede”.    96

 

Non era camminata di palagio
là ’v’eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio.    99

 

“Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio”, diss’io quando fui dritto,
“a trarmi d’erro un poco mi favella:    102

 

ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?”.    105

 

Ed elli a me: “Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.    108

 

Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.    111

 

E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto    114

 

fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca.    117

 

Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim’era.    120

 

Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,    123

 

e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch’appar di qua, e sù ricorse”.    126

 

Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto    129

 

d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.    132

 

Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,    135

 

salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.    138

 

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

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